L'oro di Oropa da scrigno di fede a caveau di banca [Eco di Biella, 3 agosto 2013]

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Data cronica
3 agosto 2013
Pagine tardo seicentesche di uno dei registri degli ex voto donati al Santuario di Oropa
Pagine tardo seicentesche di uno dei registri degli ex voto donati al Santuario di Oropa

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L'oro di Oropa da scrigno di fede a caveau di banca

Questa sera, a Rosazza, si parla di gioielli o, meglio, di oreficeria popolare nella Valle del Cervo e nell’Alto Biellese. L’appuntamento rappresenta un’altra tappa del percorso tracciato dalla professoressa Lia Lenti che ha condotto una ricerca preziosa, è il caso di dirlo, sulla oreficeria popolare nel Biellese dell’Otto-Novecento, ricerca che ha portato l’inverno scorso all’allestimento di una mostra al Museo del Territorio e alla pubblicazione del relativo catalogo. A suo tempo l’argomento è già stato trattato su queste pagine in più occasioni e da diverse mani, ma il tema resta vasto e si può tentare di aggiungere qualche elemento e qualche spunto di riflessione a corredo del grande lavoro già svolto. Proviamo, quindi, ad analizzare e a “schematizzare” il fenomeno per evidenziarne alcuni aspetti non proprio immediati ma non meno interessanti, soprattutto in chiave economica. Partiamo dalla ragion d’essere della gioielleria e dei suoi prodotti. Clienti e artigiani produttori, ossia domanda e offerta, si incontravano e si motivavano reciprocamente rispetto a una duplice finalità: una personale e privata, l’altra “esterna” e “pubblica”. L’acquisto di un gioiello e, di conseguenza, la sua fattura, cioè il mercato della gioielleria ha oggi perso la seconda direttrice e si è, almeno qui, “ridotto” a gesti rivolti a se stessi o ad altre persone, per lo più appartenenti a una cerchia molto ristretta, cui vogliamo significare un nostro sentimento. Invece non ci appartiene più la seconda dimensione, se vogliamo non meno “intima”, ma slegata da una persona (noi stessi o chi amiamo) perché agita quasi esclusivamente in ambito devozionale, dove l’amore e le sue manifestazioni erano riservati ad Altro. Eppure fino a non molti anni orsono era del tutto normale acquistare o, addirittura, far fabbricare uno o più gioielli o oggetti preziosi in genere per donarli come espressione di fede o come scioglimento di un voto. Naturalmente la Madonna di Oropa è stata il polo attrattivo di maggior antichità e intensità, tanto da queste parti quanto per un’ampia porzione del Piemonte. Nel Biellese non si ha notizia né riscontro storico, artistico e documentario di un’altra esperienza analoga sia per quantità sia per qualità. Certo anche a Graglia, a San Giovanni d’Andorno, alla Brughiera, al Cavallero ecc. o in alcune chiese che non sono santuari si sono raccolti i segni dell’affetto e della invocazione di benevolenza, ma i flussi e le giacenze, tanto per usare una terminologia tecnica, non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli di Oropa. Ma non è il perché e nemmeno il come a suscitare la curiosità alla base di queste righe, semmai gli effetti generati da tale univoca e forte corrente ascensionale di ori, argenti e pietre preziose che salivano a Oropa nei bagagli dei pellegrini o portati addosso dai devoti accorrenti o, dall’inizio del Seicento, comprati in loco nelle botteghe dei coronari attivi nel santuario. Prima di tutto va segnalato il valore economico in termini generali della presenza di più d’un orefice in città (e anche altrove, per esempio quella di Amedeo Tempia di Torino che alla metà del Settecento ricevette la commessa della realizzazione della splendida pettorina da far indossare alla Statua e oggi visibile al Museo del Tesoro di Oropa) con tutto ciò che comportava l’attività di simili laboratori: materie prime che si spostano, spesso in arrivo da molto lontano (sarebbe bello poter indagare l’origine geografica dei metalli e delle gemme conservate a Oropa, ovvero disegnare una globale orientata verso a Vergine Bruna: l’oro da dove arrivava prima di essere lavorato dagli orefici biellesi? Forse proveniva dalle faisqueiras del Minas Gerais? L’argento era quello boliviano del Potosì che la Spagna importava in Europa? E i diamanti che la contessa di Challant portava in dono nel Seicento chissà dove erano estratti e chissà per quanti mari, per quanti porti, per quanti banchi di mercanti erano passati prima di sedimentarsi a Oropa), attrezzature e strumenti da comprare e da manutenere per dotare la bottega di quanto necessario, apprendisti e garzoni da formare ecc.. Già di per sé un microcosmo di artigianato e di manualità in buona parte scomparso, col suo indotto locale e minimo, ma pur sempre in grado di far sbarcare in lunario a qualche famiglia. E basta osservare una fotografia dell’Oreficeria Gualino in esercizio in Riva a cavallo del 1900 per renderci conto che “artigianato” è un termine riduttivo, piuttosto sarebbe meglio parlare, almeno in quel caso, di piccola industria. Poi c’era l’accumulo a Oropa. La devotio populi ha trasformato, per certi versi e già ab antiquo, il santuario da semplice scrigno di fede anche in un caveau di banca. Provvidenzialmente, più di una volta, Oropa poté soccorrere la Città di Biella, e non solo, proprio grazie a quelle “riserve auree” e/o affini che garantivano solidità e solvibilità a un istituto spirituale ma anche, volente o nolente, di credito. Quintali d’oro, d’argento, di smeraldi, rubini, ecc. nei decenni ricoprirono i muri della basilica e poi delle gallerie, quando non direttamente la “Venerata Effigie”, come in una soluzione che il succedersi delle generazioni rimescolava lentamente aumentandone via via la concentrazione. In effetti il decantare dei donativi  e degli ex-voto era solo temporaneo. Da sempre Oropa accoglie e l’accoglienza costa. Servivano nuovi servizi e nuovi spazi. E serviva conservare quelli esistenti. Di conseguenze occorreva selezionare per salvare, ma anche per sacrificare ad maiorem gloriam, occorreva liberare le superfici per non dissuadere i nuovi apporti. Il risultato del filtraggio di almeno due/tre secoli è visibile al museo. E’ rimasto il meglio, il più prezioso, il più regale: gli omaggi reali alla Regina. Il resto è “tornato in circolo”, ha mosso denaro e finanziato opere, come quelle “molteplici che ancora occorrono per la prosecuzione della Fabbrica di cotesto Santuario”, come si legge in una lettera del 29 settembre 1827 nella quale gli amministratori di Oropa si rivolgevano al vescovo per ottenere il suo consenso avendo reputato “conveniente di alienare tutti gli ori, argenti, e gemme che non si trovano posti in opera per ornamento del Simulacro, ò della Chiesa, e Cappella”. Un semplice anellino d’oro, un cuore d’argento, una corona, un filo di dorini, figure o parti anatomiche argentate (gambe, occhi, mani, teste, seni ecc.), croci, “granate”, orecchini, filigrane, perle, lampade, calici e chissà cos’altro hanno avuto il tempo di dimostrare al mondo di passaggio a Oropa (anche se in forma spesso del tutto anonima) che persone devote erano state lì e vi erano state perché credevano e avevano voluto attestarlo con quel dono. Ecco la dimensione “esterna” e “pubblica”. Poi il tempo di esposizione aveva inevitabilmente termine come hanno avuto termine le vite di coloro che avevano donato quelle concretizzazioni di speranze, preghiere, e ringraziamenti in simboli di metalli luccicanti o di minerali brillanti. Migliaia e migliaia di oggetti delle fatture e delle fogge più disparate scendevano allora da Oropa e diventavano moneta e nuova materia prima di fusione. Le pietre trovavano posto in altri castoni. Nascevano altri gioielli destinati a Oropa in una sequenza socio-antropologico-economica che si sarebbe detta senza fine. In realtà anche quella tradizione, quell’usanza derivata dalla religiosità ha finito con lo sparire.  E il meccanismo economico si è inceppato. Restano le tracce di una memoria, quella che già anni addietro aveva destato l’attenzione di chi indagava le testimonianze di eccellenze artigiane alla ricerca della conferma della possibilità di quella “alternativa” che nel Biellese, drammaticamente, si trova sempre nel ieri e mai nel domani, quella memoria degli  e negli ori che Lia Lenti e alcuni altri studiosi locali hanno provato a fermare prima dell’oblio per consegnarla al futuro.

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