I "deliri" idroelettrici dell'industre Biellese in tempi di guerra [Eco di Biella, 6 agosto 2018]
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Data cronica
- 6 agosto 2018
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
- I "deliri" idroelettrici dell'industre Biellese in tempi di guerra
Era ancora lontana dall'essersi completata la conversione dalla forza motrice idraulica a quella elettrica, che già il Biellese industriale si scopriva sitibondo. Il Novecento iniziava illuminando le vite dei biellesi e movendo le macchine nelle loro filande, ma l'elettricità avrebbe incrementato davvero la produzione tessile solo a fronte di un alto prezzo in termini di risorse idriche. Sfruttare le non così cospicue portate dei torrenti non poteva più bastare. E "importare" a Biella e convalli gli ampere e i volt prodotti nel Canavese o in Valle d'Aosta (peraltro disputandoli ad altri utilizzatori voraci a suon di milioni) non avrebbe risolto il problema. Gli impianti idroelettrici nostrani erano, all'alba della Grande Guerra e anche dopo, poca cosa, esigui per numero e per capacità. Poco più di piccole "batterie" per (sotto)alimentare lampade ad arco o le prime a incandescenza. La "forza" era pressochè tutta generata lontano. Per rendere effettiva un'industrializzazione moderna ancora esitante non c'era altra via che quella indicata dagli elettrotecnici del secondo Ottocento, come Galileo Ferraris, o dai geni contemporanei, come Nikola Tesla. Ma per trasformare l'acqua in energia elettrica serviva prima di tutto... l'acqua e quest'ultima scarseggiava perchè gli alvei erano sempre più spesso secchi o quasi, e perchè la richiesta era via via crescente. Nel 1911 nella sola area urbana di Biella si contavano 208 industrie che davano lavoro a circa 8.100 persone, ossia un terzo della popolazione residente in città. Il tutto con soli 1.409 cavalli dinamici, molti dei quali ancora creati direttamente da ruote idrauliche e non da turbine e alternatori. Si rischiava di assistere all'aborto della fase più importante dell'evoluzione industriale per causa della carenza di HP elettrici. Quella deficienza di mezzi si acuì in modo drammatico durante la Grande Guerra, quando si arrivò al razionamento dapprima controllato e poi a una più ingestibile distribuzione a singhiozzo, sempre senza che i biellesi potessero intervenire perchè, come detto, la più parte di quell'elettricità era fornita dalla Dora o dal Lys. Il che sottolineava la necessità impellente di compensare con una più congrua produzione autonoma, meno soggetta a "diritti di precedenza" di altre aree industrializzate. Ma alla fine si tornava comunque al punto di partenza: l'acqua disponibile nel Biellese era quella che scorreva nel Cervo, nell'Elvo, nello Strona, nel Ponzone e nel Sessera, con i rigagnoli che si definivano loro affluenti. Nell'autunno del 1912 l'ingegner Salvetti di Biella progettò la captazione contemporanea dei flussi del torrente Cervo e del rio Luchiama tra Quittengo e Sagliano Micca per condurre le acque (600 litri al secondo) a un salto di circa 83 metri da cui ricavare 666 HP nominali da impiegare nella tramvia Biella-Oropa. Ardita e lodevole iniziativa, ma di minimo impatto (non ebbe corso, se non in altra forma nel 1922 e per interessamento dei Sella, senza più collegamenti con la primitiva destinazione d'uso). Sempre nel 1912, grazie all'intuizione del professor Zublena, era entrato in funzione l'impianto Bertignano-Viverone per la generazione elettrica con un ingegnoso sistema di pompaggio e con il fascino delle soluzioni fai da te, ma quella pur notevole struttura non poteva sopperire che molto limitatamente e solo localmente ai bisogni di elettricità. Allora a qualcuno venne in mente che di laghi ce n'erano almeno altri due, quello del Mucrone e quello della Vecchia, e che, per quanto non proprio comodi da raggiungere, se si trattava di "adattarli" a cisterne idroelettriche, la scienza e la tecnica erano già in grado di fare miracoli. Tornò in auge, tanto per cambiare, anche il solito traforo della Mologna per ingrossare il Cervo con le acque del Lys, ma mentre l'Italia era in trincea l'idea del tunnel non suscitò entusiasmo (troppa manodopera da distrarre dallo sforzo bellico). Così ci si concentrò sui bacini montani delle Alpi biellesi e, in particolare, su quello da cui nasce il Cervo. L'ipotesi di ricavare forza motrice elettrica dal Lago della Vecchia non era poi così inverosimile dato che poco lontano, ossia sul Lago del Vargno, i lavori per usarne le acque erano già iniziati. Posto a 1665 metri sul livello del mare, il Vargno fu soggetto a opere di non poco conto al fine di aumentare la capienza dell'invaso naturale (per approfondire il tema specifico si veda il bel volume "Storie d’acqua e d’energia. Alle origini dell’industria idroelettrica nella bassa Valle d’Aosta. Reparto operativo di Pont-Saint-Martin e di Montjovet" del 2014). Nel 1916 era stata la Ernesto Breda a far rivedere i piani dall'ingegner Luigi Mangiagalli e, tra il 1917 e il 1918, a far innalzare il terrapieno (sulla base di progetti risalenti al 1906 approntati su commessa della Manifattura Rossari & Varzi di Galliate). Alla fine del cantiere lo sbarramento avrebbe avuto una lunghezza di circa 130 metri e un’altezza di ritenuta di 18 metri, imbrigliando 1.250.000 metri cubi d'acqua. Il Lago del Vargno avrebbe assicurato l'apporto idrico alla centrale di Fontainemore e a quella di Pont-Saint-Martin nei periodi di siccità. Nel 1930 la diga palesò considerevoli problemi di tenuta e, dopo il disastro del Vajont, il muraglione fu aperto per consentire il naturale deflusso dal bacino. Nel 1917, però, tutto stava andando per il meglio e i biellesi guardavano con invidia ai progressi vallesani, per quanto ottenuti con investimenti meneghini. Su "Il Nuovo Giornale" del 15 settembre 1917 un anonimo trafiletto in prima pagina metteva il dito nella piaga e si domandava: "Perchè il lago Vargno e non quello della Vecchia?". Lo specchio d'acqua biellese, situato sopra Piedicavallo a 1858, "è di una buona metà più grande del Vargno e potrebbe costituire un reservoir straordinario per i tempi di magra". Con un occhio al cantiere di Fontainemore, l'articolista sferzava l'orgoglio nostrano affermando che "i valligiani di Piedicavallo, grandi ed invitti costruttori per gli altri, farebbero mirabilia in casa loro". Il 13 ottobre lo stesso autore senza firma pubblicò un più ampio articolo sullo stesso argomento e si addentrò in convincenti valutazioni tecniche, frutto di una certa competenza e di una lunga osservazione. Il pezzo, intitolato "Utilizzazione del Lago della Vecchia", iniziava così: "Le moderne turbine permettono, a parità di potenza dinamica, di conseguire energia colla minima spesa possibile quanto maggiore è la caduta dell'acqua ossia il salto disponibile", il che giustificava, anzi stimolava la ricerca di siti d'accumulo o di flusso idrico a quote considerevoli, sia per le loro caratteristiche naturali sia per quelle che un intervento artificiale avrebbe potuto conferire loro. L'articolista citava, a titolo di esempio, la "sopraelevazione del laghetto alpino di Codelago sul Deveso" e richiamava le affermazioni di tale ingegner Luiggi, con tutta evidenza un'autorità in materia, in merito alle opportunità offerte da bacini come quello della Vecchia. A seguire, il prevedibile adagio sciovinistico ("il Biellese «ansimando di navette e si spole» colle fiorenti sue industrie non dev'essere secondo alle altre regioni italiane nell'intraprendere le costruzioni di lavori pubblici di energia elettrica necessaria ed indispensabile alle sue industrie"... alla fine è sempre una questione di grandi opere...) preludeva a considerazioni di tipo tecnico: date le misure del lago in oggetto e verificato il dislivello utile di 800 metri, si trattava solo di immettere in condotte forzate una certa parte del deflusso del Cervo nascente per ottenere non meno di 1.000 cavalli di potenza. Non la soluzione di tutti i problemi, ma un passo avanti. A costo di veder sparire dalla valletta a monte di Piedicavallo una larga porzione del torrente. Gli ecologisti non sarebbero stati contenti. Lo stesso entusiasta propugnatore non arrivava a immaginare uno sbarramento lassù, ma spingeva lo sguardo sul Sessera. Sul suo corso (alla confluenza con la Dolca) sarebbe stato facile e di non eccessiva spesa costruire un invaso capiente e con esso contribuire in modo rilevante all'agognata autarchia energetica biellese. Quel poco di "carbone bianco" locale avrebbe, in misura sempre più consistente, sostituito quello nero, globale, estratto chissà dove e tanto costoso da avere in quantità sufficiente. Se sul Cervo le cose sono andate in maniera differente, sul Sessera il vaticinio del 1917 si è avverato, anzi tende ad assumere dimensioni che allora non si osava neppure pensare. Sempre per la gioia degli ecologisti e anche di chi non vede l'ora di vivere sotto una mega-diga. Il fabbisogno di energia elettrica "a chilometro zero" aumenta in condizioni difficili, quando le industrie sono sottoposte a situazioni di stress produttivo o di difficoltà di approvvigionamento. Così, ciò che era avvenuto nel 15-18 si ripresentò in qualche misura nella Seconda Guerra Mondiale. Cambiando lago. Ai primi di luglio del 1943 la S.A.L.L.A. Società Anonima Lavorazione Lane ed Affini "nella persona del Presidente Attilio Botto con stabilimento in Pollone", scrisse al Santuario di Oropa in merito alla "diga al lago del Mucrone". Una velina datata 8 luglio tramanda che "questa Amministrazione in sua seduta delli 6 corrente ha preso in attento esame la vostra richiesta di effettuare un tentativo di sopraelevazione delle acque del lago del Mucrone mediante l'erezione di una diga di sbarramento nel punto di sbocco del torrente Oropa dal lago stesso". Che non fosse una boutade si evince dal resto del contenuto della stessa missiva: "L'Amministrazione ha dato parere favorevole in linea di massima all'opera progettata [...] e intende poter esaminare il progetto generale prima di consentire eventualmente qualsiasi lavoro anche fatto a titolo di esperimento". Se la realizzazione dell'opera non fosse già in avanzato studio di fattibilità non esisterebbe tale corrispondenza. E' chiaro che gli eventi che sconvolsero la già stravolta situazione dell'Italia di allora fermarono i progettisti e, di conseguenza, i costruttori. Tuttavia vale la pena approfondire il tema per capire quali fossero le intenzioni effettive tanto di Attilio Botto quanto di Oropa. Quest'ultima, nella citata lettera, si premurava di mettere in chiaro "ogni riserva sia nei riguardi della difesa del paesaggio sia in relazione ad altre circostanze e diritti", cioè l'ambiente, vera attrattiva della zona non avrebbe dovuto subire oltraggi (sensibilità di non poco rilievo all'epoca e in quello specifico frangente). Inoltre qualsiasi tentativo che non avesse portato a buon fine non avrebbe dovuto lasciare traccia, ovvero era inderogabile la "rimessa in pristino qualora l'esperimento non desse risultati positivi". Quali fossero i propositi dell'imprenditore tessili si scopre dalla comunicazione del 5 luglio 1943 sottoscritta dall'avvocato Giuseppe Mongilardi che potete leggere qui pubblicata (Archivio Storico Santuario di Oropa). Uno dei dati strutturali di maggior rilevanza è quello relativo all'altezza del muro di contenimento: 2 metri sul pelo dell'acqua. E' da tenere presente, perché in apparenza non è molto, ma moltiplicato per tutta la superficie del lago avrebbe aumentato il "peso" di parecchi metri cubi. Come premesso, il cantiere non partì, ma non per questo il progetto cessò di rivestire un certo interesse. Dalle acque limpide del Lago del Mucrone, che sembravano averla sommersa, l'idea torno a galla a conflitto terminato. Il bisettimanale indipendente "L'Eco dell'Industria" (il "papà" di questa testata) del 27 dicembre 1946 la ripropose in prima pagina: "Un progetto per il lago del Mucrone. Verrà utilizzato come bacino di riserva idroelettrica". Anche in questo caso non è dato a sapersi l'autore del pezzo, ma secondo le sue fonti la "trasformazione" sarebbe entrata "nella sua fase esecutiva" a brevissimo termine. Sempre secondo le informazioni assunte dall'anonimo articolista, il Santuario di Oropa, proprietario del lago, aveva già dato due anni prima il suo benestare (il riferimento era per il progetto S.A.L.L.A. del '43). Nel 1946 il timore dell'impatto ambientale non si era affievolito, al contrario. "Non temano gli amanti del paesaggio - si legge nel testo - la conca non soffrirà cambiamenti essenziali anzi, il bacino acque, cioè il lago vero e proprio, ne guadagnerà soltanto in ampiezza. D'estate lo specchio d'acqua sarà circa il doppio di quello che è attualmente, e d'inverno si avrà una pista ghiacciata pure il doppio di quella che è attualmente. In ogni caso ci sarà soltanto più spazio per i ruzzoloni invernali e per le gite estive in barchetta". Un buon marketing, niente da dire, e senza passare sotto silenzio che la diga sarebbe stata elevata a 20 metri d'altezza "comprese le fondamenta". A occhio qualcosina in più dei 2 metri del 1943, ma non era il caso di sottilizzare. Lo sbarramento avrebbe avuto una base di 20 metri con una massa complessiva di 5.000 metri cubi di muratura per fermare 200.000 metri cubi d'acqua oltre a quelli già presenti nel lago. Il tutto, bontà sua, senza canali o tubi. La portata supplementare avrebbe garantito il funzionamento della centralina di Pollone (quindi si trattava sempre di un progetto intestato ai Botto) anche nei mesi più secchi con la captazione già attiva 900 metri più a valle rispetto al lago, ovvero alla confluenza del Canal Secco nell'Oropa. "Si calcola di poter così produrre nei periodi di maggior scarsità almeno 160 mila KW per stagione e cioè oltre 300 mila KW annui. Non è molto, ma nei periodi di scarsità, sarà tanta manna". Per fortuna niente del genere fu realizzato davvero e certi deliri idroelettrici sono rimasti sogni (incubi) del passato. E poi ci siamo evoluti: niente più dighe alpine (Valsessera excluding), basterà tappezzare le falde dei monti di pannelli fotovoltaici e le cime di pale eoliche, et voilà...
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