Sant'Antonio da Padova a Campiglia Cervo [Eco di Biella, 8 agosto 2015]
Tipologia Documento
Data cronica
- 8 agosto 2015
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
- Sant'Antonio da Padova a Campiglia Cervo
La devozione di un santo può essere, a suo modo, una testimonianza della società e delle sue evoluzioni. Anche il fervore per i santi ha assunto andamenti altalenanti, a volte sinusoidali, con periodi di grande auge, momenti di indifferenza, ritorni inaspettati o definitivo oblii. Sarebbe poco riguardoso, per non dire blasfemo, parlare di "moda", ma è un fatto che la devotio populi si manifesti in modi e tempi spesso inspiegabili, con santi resistenti al succedersi delle epoche, altri riscoperti dopo più di mille anni e altri dispersi in saecula saeculorum. Dipende molto dai "gusti" della gente in un dato frangente storico, ma anche dalle circostanze e dal "messaggio" che il santo porta con sé o gli viene attribuito. Anche quando il messaggio stesso è travisato o inventato di sana pianta. Tutti, credenti o meno, hanno avuto a che fare con san Valentino e si ricordano quando ricorre la sua festa nel calendario. Valentino da Terni è sulla breccia da più di diciotto secoli e gode di ottima salute, anche dal punto di vista del marketing e dell'indotto che ha prodotto, specialmente negli ultimi decenni. Più che il patrono degli innamorati dovrebbe esserlo dei fioristi, dei gioiellieri e dei ristoratori, ma questo è un assunto poco romantico. Giovanna d'Arco è un altro esempio interessante. La Pulzella d'Orléans è una specie di prezzemolina. Non c'è chiesa di Francia senza una sua statua ed è tanto santa quanto eroina, ma da quando è morta nel 1431, ha impiegato mezzo millennio a farsi santificare (1920) e quindi il suo culto sugli altari è recente pur essendo da sempre famosissima. San Pio da Pietralcina, invece, è ancora piuttosto giovane e ancora si fa fatica a chiamarlo così. E' rimasto Padre Pio per tutti e la sua effige si incontra ovunque in Italia, anche sui manifesti mortuari. E nemmeno la beatificazione di Madre Teresa e la canonizzazione di Giovanni Paolo II hanno intaccato la fede di cui è oggetto il povero fraticello con le stigmate. E' andata male, invece, a santi come Anicheto, Fotio, Niceta, Demetrio, Orestio e Mamete: non li ricorda nessuno. Senza contare quelli scomparsi all'ombra di infauste omonimie. Di santi Germano, tanto per fare un esempio, se ne conta una ventina almeno, ma giusto un paio riceve qualche attenzione, mentre le altre tre dozzine non hanno avuto scampo. Lo stesso destino toccherà (oppure no, chi può dirlo) a molti dei canonizzati in massa di recente. La più parte di loro finirà nel dimenticatoio in breve tempo e, tra qualche anno dopo aver giocato da titolare, le toccherà sedersi in quella lunga panchina che si chiama Ognissanti. Lì si spengono nell'anonimato le carriere più o meno fulgide di tanti santi straordinari che solo l'agiografia tramanda per i curiosi di quella letteratura ricca e piena di sorprese, ma molto di nicchia. Certo, anche la località riveste un ruolo fondamentale: alcuni santi tengono duro in un dato posto (si veda sant'Ubaldo a Gubbio o Sant'Euseo a Serravalle Sesia tanto per fare due nomi) pur senza avere chance extra moenia. E poi ci sono gli evergreen globali, quelli che sono venerati da sempre e in ogni luogo, senza segni di cedimento. Uno di questi è Sant'Antonio da Padova (anche se era originario di Lisbona). Vissuto tra XII e XIII secolo, il francescano con il giglio che conta milioni di fedeli in tutto il mondo da decine di generazioni e che a metà del Seicento raggiunse anche Campiglia Cervo. Vale la pena di rileggere il resoconto di quell'arrivo per come lo ha lasciato ai posteri l'allora parroco della comunità valligiana, don Giovanni Battista Forno (o Furno, ma negli atti è indicato come Forno). Anche perché non è che "Il Santo" patavino fosse sconosciuto ai valìt, anzi, ma si trattava di dare a quel credere spontaneo un ordine e una ben definita struttura. Don Forno voleva accogliere sant'Antonio nel modo più efficace, ovvero istituendo una compagnia di devoti d'ambo i sessi che si occupasse degnamente del suo culto. Rivolgendosi al vicario generale del vescovo di Vercelli (la Diocesi di Biella era ancora lontana dall'essere costituita), il canonico don Ottavio Piana, il parroco di Campiglia Cervo si espresse così: "Correndo à gran passi la fama dell'infiniti miracoli di S. Antonio da Padova, non credo, che nella Christianità vi sijno città, castelli, borghi ed altri luoghi poveri, ò richi, che si ritrovino, che ad ogni suo potere non procurino haverlo per Protettor et Avocato appresso di chi s'ottengono le grazie". Don Forno, per concretizzare la sua pia iniziativa, la mise subito sul piano emulativo e, soprattutto, inclusivo: se lo onorano tutti e tanti lo avevano eletto a patrono, perché i campigliesi avrebbero dovuto farne a meno? Il resto della istanza (giacché per introdurre un nuovo elemento devozionale occorreva avere il consenso della superiore autorità competente) restituisce altre notizie circa il seguito che sant'Antonio doveva già avere nella vallata o, almeno, nell'animo di don Forno. "E pare, ardirei dire, che Antonio sij il Cameriere della Maestà Divina, che senza l'alzare della portiera della sua intercessione, persona veruna possi entrare à porger supplica all'Imperatore del Mondo tutto, perciò non volendo di tanto patrocinio esser io escluso con i miei parochiani, ho stimato cosa bonissima instituire nella mia Parochiale una compagnia con le regole qui annesse sotto l'invocazione di S. Antonio da Padova". Queste poche righe furono scritte il 15 aprile 1656 e sono a tutti gli effetti l'atto di nascita del sodalizio. Il 12 giugno successivo il vicario can. Ottavio Piana accontentò il fervente don Forno approvando la proposta e le norme già accluse alla supplica. I 13 articoli che costituivano il regolamento della compagnia raccontano in chiaroscuro quella che doveva essere la vita dell'associazione, con la sua gerarchia e i suoi scopi ben delineati. Sei "Ufficiali" e il "Priore" (ossia il parroco che a Campiglia Cervo aveva quel titolo specifico) avrebbero guidato i confratelli e le consorelle che, secondo quanto previsto da don Forno, dovevano essere 150 per ognuno dei due sessi. Oggi possono apparire come numeri rilevanti, ma a quei tempi le compagnie come quella nata a Campiglia Cervo contavano davvero tanti affiliati e finché la devozione era alimentata con intelligenza e coinvolgimento, le liste dei soci e delle socie rimanevano fitte e lunghe. Nel caso di Campiglia Cervo ogni "decena" di iscritti avrebbe avuto un referente per una migliore funzionalità operativa. I legami di "fratellanza" si dovevano manifestare e rafforzare in caso di malattia e di morte, soccorrendo i compagni ammalati o prendendo parte alle esequie di quelli defunti. Entrare a far parte della neonata Compagnia di Sant'Antonio da Padova costava dieci soldi (mezza lira) l'anno, per gli uomini e sette e mezzo per le donne. Una quota del versamento sarebbe stata impiegata per la manutenzione dell'altare (che si trova tuttora lungo la navata sinistra della chiesa, nella cappella che fu edificata grazie alle offerte e ai sacrifici degli stessi devoti del santo). Due degli articoli sono particolarmente significativi. Il nono si riferisce ai confratelli intenzionati a emigrare. Quelli che restavano nella Bürsch dovevano aiutare coloro che partivano, se non altro per far celebrare eventuali funerali tra i congiunti dell'emigrato. L'undicesimo, invece, vietava l'ingresso nella compagnia alle "persone che facino professione d'arme, e di risse se non le portassero in necessita di difesa". Sant'Antonio da Padova poteva contare su un prete convinto e, probabilmente, su una comunità di credenti che avrebbe fatto del suo meglio. Il culto si è mantenuto piuttosto vivace per almeno tre secoli. L'ultima norma inserita nell'elenco di don Forno serviva, infatti, ad assicurare un futuro alla compagnia, rammentando a chi sarebbe succeduto ai fondatori di prodigarsi "non lasciando raffreddare una tal opera à gloria di Dio, della Beatissima Vergine, del Santo de Miracoli, e beneficio dell'Anime".
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