Piedicavallo 1900: lo strano omicidio di Giavina Vola Gio + Il "delitto dell'Ebreo" tra condanne, colpi di scena e assoluzioni [Eco di Biella, 17 e 24 giugno 2019]
Tipologia Documento
Data cronica
- 17 giugno 2019 - 24 giugno 2019
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
- Piedicavallo 1900: lo strano omicidio di Giavina Vola Gio [17 giugno 2019]
I fratelli Grato e Severino Vaglio Bianco accusati dell'assassinio
Una sentenza quanto meno singolare e non priva di dubbi
L'omertà dei valìt, testimoni "eccellenti" e gli attriti con i protestanti
Gli affezioni lettori de "L'Italia", giornale in lingua italiana pubblicato a San Francisco nel primo Novecento (per la precisione il quotidiano uscì dal 1887 al 1943), il lunedì 16 gennaio 1911 poterono leggere una notizia curiosa che ci riguarda piuttosto da vicino. Secondo l'ignoto cronista di quello che modestamente si definiva "the first and largest italian daily paper in the United States with the largest circulation among the Italians", nel lontano Biellese si era verificato un caso giudiziario davvero singolare. Ed ecco il trafiletto: "Nella notte del 26 gennaio 1900 veniva assassinato in Piedicavallo. a colpi di bastone, un possidente del luogo, certo Giovanni Giavina-Vola, detto l'Ebreo. Per questo delitto, alle Assise di Vercelli venivano condannati i fratelli Bianco-Vaglio Grato e Severino, il primo a 18 anni di reclusione come complice, il secondo in contumacia e come autore principale all'ergastolo. Saputa la sua condanna il Severino rimpatriò. Venne arrestato, e, dopo lunghe peripezie giudiziarie e diversi arresti di testi falsi di accusa e di difesa veniva assolto. Cosi venne a verificarsi il fatto, più unico che raro, che pel medesimo reato, essendo due gli accusati, l'autore principale è assolto ed il complice condannato, basandosi i due giudizi sulle medesime circostanze di fatto e sulle medesime deposizioni di medesimi testi. I difensori del Grato, chiesta invano la revisione del processo, ricorsero in grazia ed ottennero a due riprese sei anni di diminuzione di pena". La questione, con tutta evidenza, richiede un approfondimento. A partire dal fatto che dall'epoca del reato erano già trascorsi ben undici anni. Il che deve ridimensionare l'odierna convinzione di avere a che fare con una giustizia lenta... Ma il discorso è più intrigante. Le modalità di esecuzione del delitto, i dubbi circa l'effettivo coinvolgimento di uno dei due fratelli accusati, la "fuga" e poi il contumace che si costituisce, la riduzione di pena che sa di incertezza della macchina giudiziaria, il richiamo a quei testimoni falsi che ebbero un ruolo importante nella vicenda... Insomma, una crime story da fare invidia a una serie televisiva americana. Occorre quindi lasciare la California del 1911 per risalire il Cervo fino al più remoto villaggio della Bürsch all'inizio del 1900. Su "La Tribuna Biellese" del 28 gennaio di quell'anno, un piccolo articolo annunciava che in Piedicavallo si era verificata una "morte improvvisa e misteriosa", ovvero che "il 27 corrente veniva trovato per la strada coperto di ferite, alcune delle quali apparirebbero d’armi da taglio, il sig. Giavina Vola Gio. Fu raccolto agonizzante e spirava quasi subito; il Giavina era piuttosto denaroso. Il fatto destò grave apprensione e non si sa a che attribuire il tragico avvenimento. Intanto il procuratore del Re ha impedito il sotterramento del cadavere, che resta a disposizione dell’autorità giudiziaria per le constatazioni di legge. Oggi il Giudice Istruttore di Biella andrà sul luogo per l’anatomia del cadavere. Nessun indizio finora su questo mistero". Su "L'Eco dell'Industria" dello stesso giorno la medesima cautela, ma con qualche dato in più sul malcapitato Giovanni Giavina Vola. A trovarlo in fin di vita era stata la figlia, che era uscita di casa preoccupata di non vederlo rientrare. L'uomo giaceva a terra poco distante dall'uscio, con "una ferita alla nuca, e alquanto sangue ragrummato alla bocca, che non davano indizio certo se fosse egli caduto per sincope improvvisa o per accidente, oppure se fosse stato percosso ed atterrato. Fu trasportato in casa, ma pur troppo il medico subito accorso constatò che la morte era già avvenuta. Circa le cause della morte, si sta facendo un’inchiesta. Il Giavina-Vola Giovanni era un uomo di circa 65 anni d’età, era ritenuto molto facoltoso, e faceva vita piuttosto ritirata. Era stato impresario di lavori, ed aveva dimorato parecchi anni in America. Pochi mesi or sono si parlò di lui a proposito di un processo per sottrazione di oggetti pignorati, nel quale egli si costituì parte civile". A prima vista, quindi, non era stato possibile stabilire come fosse morto. Ma per questo aspetto fondamentale si dovette attendere solo qualche giorno. Stando alla suddetta "Tribuna Biellese", l'esame autoptico aveva evidenziato come il decesso del Giavina Vola non poteva essere stato accidentale a morte del Giavina non era casuale. Il medico di Piedicavallo dottor Barbera, e il collega Rossetti dell'Ospedale degli Infermi di Biella, eseguirono l'autopsia e riscontrarono sul morto quattro ferite: "due alla nuca ed una alla fronte, leggiere che non intaccavano l’osso; ed una gravissima, ma quasi invisibile, dietro l’orecchio, che procurò la rottura profonda dell’osso e fu causa della morte immediata. La ferita si attribuisce ad un colpo di nervo di bue o di chasse tête perchè ruppe nemmeno la pelle e produsse invece una lesione interna assai profonda". Già tutto questo indicava che ci si trovava di fronte a un omicidio. E poi un dettaglio minimo, ma non secondario: "il Giavina fu trovato morto colle mani in tasca, il che esclude l’ipotesi di una caduta casuale". Dunque un agguato alle spalle, a tradimento... Infine una nota quasi antropologico-sociologica: "Difficilmente l’autorità giudiziaria potrà arrivare a scoprire qualche cosa perchè nessuno sà o vuole dare informazioni". A Piedicavallo omertà come in Aspromonte? In questo senso, almeno in parte, il giornalista si sbagliava. In ogni caso, aveva ragione su un punto: le indagini avrebbero richiesto tempo e fin da subito si dimostrarono assai complicate. Tant'è che per sentire di nuovo parlare del delitto di Piedicavallo si dovette attendere un intero anno. Nella seconda metà di gennaio del 1901 la Corte d'Assise di Vercelli era a pronta a risolvere il caso istruendo un processo che, però, si apriva in un "contesto locale" complicato, sempre in ragione di quella cortina di silenzio che avvolgeva la Bürsch e la sua gente. Il 24 gennaio "L'Eco dell'Industria" commentava l'inizio del dibattimento con queste parole: "Non è la prima volta che simili falli avvengono in Piedicavallo; ma la fatalità, o per meglio dire la poca volontà di parlare per paura di compromettersi colle persone che ne sono informate, hanno sempre fatto sì che non si poterono mai scoprire gli autori". Senz'altro c'era non poca prevenzione nei confronti di quei valìt un po' troppo cattolici per i liberali, di cui la testata era la voce. Ma quel clima "chiuso", per usare un eufemismo, non facilitava di certo gli inquirenti nelle loro indagini. Malgrado ciò, "l’autorità giudiziaria dopo aver fatto qualche indagine sull’omicidio del Giavina e raccolto qualche sospetto a carico di parecchie persone, finì per prestar fede ad una diceria che correva in paese contro certo Vaglio Bianco Grato. Risultò che costui insieme a suo fratello Severino, aveva avuto questioni per ragione d’interesse col Giavina Vola nell’ufficio del notaio Macciotta in Campiglia-Cervo pochi giorni prima dell’omicidio. Due testimoni, certi Boscono e Cardo, deposero che il Vaglio Bianco Grato avesse loro espresso propositi minacciosi contro il Giavina". Diceria, questioni di interessi, testimoni che asserivano... Spesso gli omertosi svelano qualità dialettiche insospettabili. Infatti, alla fine "tanto bastò perchè l’autorità giudiziaria facesse arrestare il Vaglio Bianco Grato e istruisse processo d’omicidio a suo carico ed a carico pure del fratello Severino, il quale per sua fortuna, al momento dell’arresto del fratello, si trovava in Francia per ragione di lavoro". E lì rimase per capire che aria stava tirando. A quanto pare la redazione de "L'Eco dell'Industria" non era molto propensa a credere alla tesi dell'accusa. In quei giorni nel tribunale vercellese si erano avvicendati parecchi testi (i soliti taciturni...). E fu chiamato a deporre anche il perito medico della difesa, il dottor Rollino di Vercelli. "Questi, basandosi sulla posizione in cui venne trovato il cadavere, cioè colle mani nelle tasche, dimostra come non fosse possibile spiegare la morte del Giavina altrimenti che come conseguenza di improvviso malore; poiché una persona che venga improvvisamente aggredita non tiene le mani in tasca, ma per istinto le alza in atto di difesa". Ribaltato il punto di vista dei due medici che avevano eseguito l'autopsia, e non senza buonsenso. Per "La Tribuna Biellese" del 27 gennaio 1901 la vicenda aveva ancora i contorni indefiniti dell'enigma. "Il mistero assoluto che circonda il delitto, se di delitto trattasi o non piuttosto di disgrazia, il contegno e l’aspetto dell’imputato, il numero stragrande dei testimoni, il pubblico che vi assiste numerosissimo, sono altrettanti coefficienti destinati a rendere interessantissimo il dibattimento". Attualissimo. Anche solo per quel cenno a come il presunto assassino si poneva verso il pubblico. Il suo aspetto diceva molto di Grato Vaglio Bianco, niente affatto il tipo lombrosiano dell'uomo delinquente che portava omicida scritto in faccia. Tuttavia si trovava sul banco degli imputati e ci sarebbe finito anche suo fratello, se solo si fosse deciso a rimpatriare. L'inviato a Vercelli ritenne utile abbozzare un ritratto del supposto reo: "l’imputato è un giovanotto dall'aspetto simpatico: è alquanto abbattuto, ma risponde con una sorprendente precisione e sicurezza alle numerose contestazioni rivoltegli dal presidente, dal P. M. e dalla parte civile. Egli nega risolutamente il delitto imputatogli: ammette di aver avuto per ragioni d’interesse un vivace battibecco col Giavina nell’ufficio del notaio Macciotta, ma si professa incapace di una azione così criminosa come quella che gli si vuole imputare". Lo stesso cronista riportò che i tanti, troppi, testimoni avevano rilasciato deposizioni insignificanti, ma almeno una risultava, a suo modo, interessante. "La più notevole caratteristica deposizione è fatta da certo Mosca Vincenzo di Pollone, il quale avrebbe avuto in carcere la confessione da parte dell’imputato che si sarebbe confessato autore del delitto". Il Mosca era un pazzo furioso, in termini letterali, tanto da essere passato dal carcere al manicomio criminale e poi di nuovo alla galera. Un teste affidabile, insomma. E poi era entrato in scena addirittura il celebre Bangher. L'aula di un tribunale è una passerella come un'altra, e molti amano sfilare. "Il Bangher compare in mezzo ai RR. Carabinieri, dignitoso e fiero come un principe spodestato, e con fierezza risponde alle domande del Presidente, cercando di difendere il Vaglio, mentre il Mosca lo accusa narrando delle piccanti storielle". Fu poi il turno di altri detenuti sodali del valsesiano Bangher che smentirono il Mosca. Periti e avvocati ebbero ancora una loro occasione, infine fu "splendida per la forma e potente per la stringente argomentazione, riesce l’arringa dell’avv. Luigi Bozino, il quale con abilità e con tatto finissimo esamina tutte le risultanze della causa dimostrandole in parte false, in parte contradditorie, tutte incapaci a creare nell’animo dei giurati la convinzione che l’imputato sia l’autore di si triste delitto. L’arringa del simpatico e noto penalista è ascoltata con viva commozione dal numeroso pubblico, dai giurati e dall’imputato che piange". Secondo il giornalista de "La Tribuna Biellese" c'era da attendersi un'assoluzione con formula piena. E invece... Si legge su "Biella Cattolica" del 2 febbraio "circa l’esito del processo contro Vaglio-Bianco Grato indiziato come autore dell’assassinio del Giavina Vola di Piedicavallo. Il Tribunale, sul verdetto dei giurati, che ritennero provata l’accusa, lo condannava a 18 anni e 4 mesi di reclusione, all’interdizione perpetua, alle spese e danni. Egli ricorre in Cassazione". Nessun testimone oculare. Nessuna arma del delitto. Nessun episodio pregresso. Un alterco davanti al notaio come movente e la delazione di un matto. Sommati insieme non delineano un innocente, bensì un assassino a sangue freddo che merita una pena pesante. Peraltro non si trattava della condanna dell'omicida, ma solo quella inflitta al complice. Il vero assassino, l'esecutore materiale, colui che aveva vibrato al Giavina Vola il colpo fatale, era il fratello Severino, al sicuro Oltralpe. Ma quella sentenza non servì a fare davvero giustizia, ma solo a innescare conseguenze. La prima: la reazione dura di una minoranza, quella valdese, che si sentiva minacciata e perciò pronta ad attaccare ogni punto debole dei più forti avversari. Nel mese di aprile del 1901 il pastore Maurin ci tenne a far sentire la voce del suo gregge che subiva, a suo dire, un costante sopruso a mezzo stampa. "Poiché Ella [cioè "Biella Cattolica"] è cosi accurata nel dar ragguagli anche circa la religione professata da coloro che vengono giustamente puniti dalla legge, La prego a voler pubblicare nel prossimo numero della Biella Cattolica, che il Vaglio Bianco Grato, da Vaglio Pettinengo, condannato a 18 anni e 4 mesi di reclusione per complicità nell’omicidio del protestante Giavina Vola Giovanni, è cattolico. Il suo ricorso in Cassazione venne respinto e rimane ferma la sentenza della Corte d’Assise di Vercelli". Quindi il morto non era "ebreo", ma protestante... La risposta del foglio cattolico non si fece attendere. Il 27 aprile pubblico la sua versione dei fatti, ma quel che più conta è che, a distanza di tre mesi dalla sentenza la colpevolezza del Vaglio Bianco era lontana dall'essere stata assunta per certa. E l'aspetto religioso non era marginale nella querelle in corso con l'evangelico Maurin e la morte di un suo "adepto" rendeva già di per sé un po' meno colpevole di quanto accertato dalla Corte d'Assise di Vercelli. "Probabilmente una ragione per cui l'insidiatore della fede cattolica nel biellese tira in mezzo il Vaglio Bianco Grato, presunto uccisore del Giavina, è perchè questi cooperava lassù a protestantizzare, con modi che lasciamo definire ad altri, la povera gente". La cosa stava prendendo una brutta piega. Ma per sapere come si svolsero i fatti che portarono il giornale italiano della California a occuparsi dei fratelli Vaglio Bianco e della loro "presunta" vittima di Piedicavallo, si dovrà aspettare fino a lunedì prossimo.
Il "delitto dell'Ebreo" tra condanne, colpi di scena e assoluzioni [24 giugno 2019]
Il Grato condannato, Severino idem, e al gabbio anche una testimone
Assolto il presunto esecutore materiale e la sua "amante"
Scarcerato dopo 10 anni il complice di un delitto non commesso
Processo contro i fratelli Grato e Severino Vaglio Bianco per l'omicidio premeditato di Giovanni Giavina Vola, detto "l'Ebreo" (in verità protestante), commesso il 26 gennaio 1900 in quel di Piedicavallo. Dei due, in data 2 febbraio 1901 era stato condannato solo il Grato, ritenuto complice e non esecutore materiale del delitto, a 18 anni e 4 mesi. Severino, il "vero" assassino, era in Francia. Sentenza quantomeno strana. Come scritto lunedì scorso, nessun testimone oculare, nessuna arma del delitto, nessun episodio pregresso, se non un alterco come movente e la delazione di un matto sconfessato ampiamente. Per tutti, il Grato andava assolto. Per la Corte d'Assise di Vercelli, in mancanza di meglio, quello sarebbe stato il capro espiatorio.
Il ricorso in Cassazione non aveva avuto esito positivo e, nel frattempo, lo stesso tribunale vercellese nella seduta del 22 luglio 1901, giudicava in contumacia il Severino e lo riconosceva colpevole in tutto e per tutto, con tanto di sentenza all'ergastolo. Libero ma ricercato in Francia, Severino Vaglio Bianco tentò di fuggire in America. La fuga, sapendo il fratello dietro le sbarre, non è un atto proprio commendevole, ma sulle prime il Severino cercò di salvare il salvabile, cioè se medesimo, forse con l'intento di agire in difesa propria e del Grato dagli Stati Uniti, senza l'assillo di doversi guardare di continuo le spalle. In ogni caso gli andò male (o, col senno di poi, bene). Il bastimento "Nuovo Mondo", sul quale stava per imbarcarsi, lo avrebbe portato oltre l'Atlantico, al sicuro dalla giustizia italiana, ma la gendarmeria francese lo trasse in arresto e subito procedette all'estradizione. Il 18 marzo 1902 anche Severino Vaglio Grato si trovò alla sbarra a Vercelli e il procedimento contro di lui prometteva di essere ancora più avvincente di quello istruito contro il solo Grato. Il 20 marzo 1902, l'inviato speciale del "La Tribuna Biellese" scrisse in prima pagina: "Credo di non errare dicendovi che mai in questa solenne aula di giustizia nella quale passano pure i delitti più atroci e raccapriccianti, si è discusso un processo in cui maggiore sia stato l’accanimento da parte dell’accusa, della parte civile e della difesa". In effetti, date le condizioni di partenza, la vicenda andava assumendo i contorni della questione di principio. Il primo processo, celebrato l'anno avanti, era di fatto indiziario e la difesa stava lavorando per demolire un'accusa niente affatto solida, che tuttavia aveva convinto non solo i giudici, ma anche una buona parte dell'opinione pubblica. Il cronista insisteva sui dubbi che gravavano sulla sentenza e, soprattutto, sul "mistero che circonda il delitto, del quale la giustizia popolare ha già designato, fondatamente o meno, uno degli autori che sarà seppellito fra le tristi mura del reclusorio per ben diciotto anni". Quindi si trattava di procedere in un clima piuttosto teso. La condanna contro il Grato aveva "l'opinione pubblica divisa in due correnti, una favorevole agli imputati, l’altra contraria". E, come se non bastasse, "il mistero che circonda il delitto, tutto ha concorso a rendere elettrico l’ambiente nel quale si discute la causa clamorosa, perchè ora si tratta di vedere se le prove raccolte nell’altro processo [quello che vedeva imputato in solitaria il Severino, n.d.a.], quelle che accusa, parte civile e difesa porteranno in questa udienza, saranno tali da decidere la giuria a dire che l’attuale giudicabile, il fratello del condannato, debba rispondere della gravissima accusa". Toccava dunque al Severino. Che, a quel punto, non avendo via d'uscita, decise di giocare la sua partita con coraggio. Prima di farlo deporre, il presidente del tribunale fece "l’appello dei 65 testimoni, di cui 49 d’accusa, 6 di parte civile e 19 di difesa". Era da parecchio che non si vedeva un procedimento di tale entità da queste parti. Ed ecco il sospetto omicida. "L’imputato è un uomo di media età, biondo, tarchiato: segue attentamente la lettura dei documenti increspando tratto tratto le ciglia, con una contrazione nervosa visibile; ha l’aspetto abbattuto e evidentemente è un uomo attanagliato da gravi sofferenze morali". Il ritratto psicologico è già di parte. Quando il giudice gli chiede se sia innocente, la risposta è accorata, credibile. Lui e il fratello non hanno avuto nulla a che fare con la fine tragica del Giavina Vola. Sì, certo, in presenza del notaio Maciotta era volata qualche parola grossa, ma niente di più. Severino Vaglio Bianco non era in grado di fare del male a nessuno e tanto meno il Grato. La seconda domanda del giudice era più che scontata e la replica altrettanto. "Non sono fuggito, risponde vivacemente l’accusato, mi recai all’estero, come era mia consuetudine ogni anno tanto è vero che parecchio tempo prima della morte del Giavina mi ero fatto rilasciare il passaporto in piena regola". E il tentativo di sfuggire all'arresto imbarcandosi per l'America? Il Severino afferma di non aver avuto più requie dopo aver saputo della pena inflitta al fratello e aggiunse che "sapendosi ricercato dalla polizia francese dopo la sua condanna in contumacia, cercò di riparare in America, non perchè si sentisse colpevole, ma perchè stanco ed oppresso dalla sventura che lo perseguitava". Secondo il solito cronista, "l’interrogatorio durò lungo tempo, e l’accusato rispose sempre con molta precisione". Il dibattimento è, per usare un eufemismo, vivace e si arriva alla bagarre quando un testimone depone a favore dell'imputato. Il sarto Botto "afferma che la sera del delitto, il quale avvenne verso le otto, ebbe a misurare in Vaglio Pettinengo un abito nuovo al Vaglio: presenta anche il suo brogliazzo ove è registrata tale fornitura al Vaglio. Questo fatto, data la distanza, esclude che il Vaglio siasi potuto trovare alle 8 a Piedicavallo ad attendere il Giavina". Ma a finire sotto accusa è lo stesso Botto. Per l'accusa la sua testimonianza è fasulla e si arriva a minacciarlo di arresto, ma poi il giudice fa procedere con il resto dei testi. E poi il finimondo. Lo racconta "L'Eco dell'Industria" di domenica 23 marzo 1902. "Nell’udienza di giovedì si sentirono altri testi, fra cui Zorio Prachinet Erminia, suo fratello Vittorio e certa Francesca [probabilmente lo stranome corretto era Francesa, n.d.a] Morel Maria: le loro deposizioni sono cosi in contrasto e gravi che i tre testi vengono rinchiusi in camera di custodia: nel pomeriggio sono messi in confronto nuovamente: la Zorio persiste nelle sue affermazioni con accento di sincerità, sostenendo delle circostanze, che indicherebbero come autori dell’omicidio l’imputato Severino Vaglio-Bianco, ed un suo cugino Vaglio-Bianco Paolo, che è rifugiato in America, complici il fratello dell’imputato Grato e la teste Morel Maria, che sembra sia amante dell’imputato. La teste Morel Maria protesta e nega recisamente le circostanze deposte dalla Zorio. Il momento è solenne ed emozionante: il pubblico e tutti sono sotto il peso di una grande impressione". A quel punto "il P. M. chiede l’arresto della Morel e la sospensione del processo per un supplemento di istruttoria. La Corte delibera in questo senso, e tra grida e pianti la giovane Maria Morel viene tratta in arresto, ed il dibattimento interrotto e rinviato ad epoca da destinarsi". La posizione di Severino Vaglio Bianco e della sua supposta amante di Piedicavallo si stava complicando, ma non perché fossero emersi fatti nuovi, bensì per una serie di testimonianze avverse che mettevano in pessima luce il condannato in contumacia e quella donna, a tutti nota come "la Muta", che, stando ai soliti bene informati, aveva una relazione con il Severino (che pure era promesso sposo di una sua compaesana di Vaglio Pettinengo). Furono i fratelli Zorio Prachinet a dare quello che poteva apparire il colpo di grazia con una articolata e circostanziata deposizione. Specialmente il Vittorio, al quale la Morel aveva "raccontato tutto" un paio di mesi dopo il delitto. "Delitto che - sempre secondo la narrazione della Muta fatta al teste - fu lungamente premeditato: per parecchie sere attesero il Giavina che facesse ritorno dalla casa di certe Müle, donne di antica riconoscenza del vecchio ma il colpo non era mai potuto riuscire o perchè vi era gente per istrada o per l’ora non abbastanza tarda. Finalmente però nella sera del 27 gennaio 1900, l’agguato ebbe l’esito desiderato. Il Giavina uscì infatti tranquillamente dalla casa delle Müle tenendo le chiavi di casa fra le mani. Poco discosto dall'uscio della casa di queste donne, in attesa, sotto un portone, stavano il Vaglio Bianco Severino ed un suo parente: quando videro il vecchio uscire si tolsero le scarpe per non farsi da lui sentire e lo pedinarono fino all’uscio della sua abitazione. In questo momento il paese era deserto, l’ora tarda, il silenzio solenne, la notte oscurissima. Giavina tentò di salire la soglia della sua porta, quando il Vaglio Bianco Severino gli vibrò un potentissimo colpo di nervo di bue: il vecchio cadde, senza mandare un lamento: poi i due subito ritornarono indietro e andarono a trovare il Vaglio Bianco Grato e la Francesa Morel Maria, la Muta, che attendevano poco discosto l’esito del delitto. I due giunsero ansanti nella località e a voce bassa chiamarono «Gra, Maria!». Alla risposta avuta soggiunsero «a l'è fait! ». Allora tanto il Grato che la Maria rincasarono frettolosamente, non visti da alcuno, scavalcando certi muricciuoli di proprietà di Peraldo Peio, che chiudono i così detti orti di Peio II Vaglio Bianco Severino e il cugino, rifecero ancora la strada percorsa, ritornarono per un istante alla porta del Giavina che giaceva morto per terra e gli vibrarono ancora due colpi di nervo di bue alla nuca. Dopo ciò fuggirono precipitosamente a Vaglio Pettinengo, dove infatti arrivarono nella notte, batterono alla bottega del noto Bianco e tentarono così di provare l’alibi. Il lungo tratto da Piedicavallo a Vaglio Pettinengo fu percorso in un’ora e mezzo". L'accusa ebbe buon gioco, nella sospensione ottenuta dalla difesa, a preparare l'assalto finale. Che però non fu possibile assestare fino all'autunno inoltrato. Le udienze ripresero il 18 novembre 1902 e molti davano per spacciato il Severino e non nutrivano grandi aspettative neppure nei confronti della povera Maria Morel. Un nuovo interrogatorio del Vaglio Bianco: "appare abbattuto dal carcere sofferto, ma in fondo ai grigi occhi infossati brilla il raggio di un’estrema speranza. Alle contestazioni diligentissime del presidente, risponde con calma; con accortezza, riflettendo evidentemente su ogni risposta che gli si chiede. Nega d’essere autore del delitto, e di aver partecipato in alcun modo alla consumazione del medesimo". La galera non aveva fiaccato la resistenza dell'uomo. Ed è il turno della valèta: "La Morel, una figura piccola, brutta di donna, porta in viso le traccie delle dure sofferenze del carcere. Ma nelle risposte è tenace, decisa, esplicita. Nega d’aver detto mai ad alcuno che essa sapesse come l’uccisione del Giavina sia avvenuta e chiama falsi i suoi accusatori". Anche lei un osso duro. E stavano per comparire i testimoni della difesa. Tanti, e piuttosto convincenti, sia in ragione dell'alibi del Severino, sia nell'attestarne l'onestà e la volontà di non sottrarsi alla legge fin dall'inizio del processo contro suo fratello (era stato convinto a partire da suoi amici che lo volevano tutelare), sia nel mettere in forte dubbio la buonafede dei testi a carico. Questi ultimi, si dimostravano via via meno attendibili, troppo interessati alla questione per portare in aula una credibilità commisurata alla gravità della situazione. In più c'era la pessima fama del morto. Vero o meno che fosse, l'ex sindaco di Piedicavallo, Giovanni Battista Zorio, affermò che "il Giavina godeva, secondo lui, poco buona fama per le sue operazioni di prestito e di compra con riscatto. Si valse di quest’influenza per costringere i suoi debitori ad entrare nella religione evangelica, come anche nelle elezioni, per farli votare a suo piacimento. Ciò durò fino al 1892: d’allora il suo prestigio scadde essendosi dato alle sue operazioni anche in altri paesi del basso biellese". Non che il defunto se la fosse cercata, questo no, ma il non si poteva non considerare che altri avessero mezzo, movente e occasione per far fuori "l'Ebreo". Infine due elementi presero forma e sostanza nel dibattimento. La perizia medico-legale era ancora oggetto di profonda discordia. Si erano formate due "correnti di pensiero", entrambe sostenute da valenti professionisti, ma del tutto discordi: morte accidentale contro morte provocata. E poi c'era il dubbio. Troppo dubbie le testimonianze, troppi indizi e nessuna vera prova. L'avvocato Luigi Guelpa, chiamato a supportare la difesa, esordì richiamando l'attenzione su "come in questa causa un dubbio gravissimo esista e come, nel dubbio la coscienza dei giurati non possa acquietarsi: l’assoluzione viene così ad imporsi per il fatto positivo del dubbio. Dimostra che l’istruttoria fu male condotta e che le deposizioni di molti testi sono inattendibili, perchè evidentemente falsi e mendaci. Conclude chiedendo un verdetto di assolutoria dicendo ai giurati che il popolo applaudirà la loro sentenza". Su quella china che, con vera sorpresa, si stava di nuovo inclinando a favore degli imputati, si mise anche "l’avv. Enrico Cavaglià, il formidabile oratore di parte civile. Non dal popolo - esordisce - ma dalla vostra coscienza dovete ottenere l’applauso, o cittadini giurati e se l’eloquenza dei fatti accusatori del Vaglio non parlasse un linguaggio chiaro, la parte civile per la prima non avrebbe il coraggio di chiedere un verdetto di condanna". Il 30 novembre 1902, il verdetto. Da "La Tribuna Biellese": "Ci telegrafano da Vercelli, ore 19,45. I giurati hanno dichiarati assolti i due imputati: negarono ogni partecipazione del Vaglio Bianco Severino sull’omicidio di Giavina con 8 voti contro 4 e mandarono assolta la Morel Maria dall’imputazione di falsa testimonianza. L'impressione è enorme; gli imputati saranno subito rilasciati in libertà". Quindi il Severino tornava libero. E il Grato? Il fratello era paradossalmente colpevole di complicità in un delitto che, forse, non era stato neppure commesso (cioè il Giavina Vola, che tra l'altro soffriva di mal caduco e di frequenti svenimenti, poteva essere morto cadendo), e per il quale l'esecutore materiale era andato assolto. I conti non tornavano, ma nessuno pensò di scarcerare Grato Vaglio Bianco sulla base della provata innocenza del fratello. Dieci anni dopo il caso fu riaperto. Dieci anni di reclusione che il Grato scontava da colpevole molto presunto, per non dire da innocente vero e proprio. Alla fine del 1910 si sparse la voce che un moribondo all'Ospedale degli Infermi di Biella avesse confessato l'omicidio del Giavina Vola. Avrebbe agito su istigazione di un nemico del protestante di Piedicavallo e dietro compenso. Un omicidio su commissione e il killer che si sgrava la coscienza in articulo mortis. Nel marzo del 1911 si potè parlare apertamente di errore giudiziario. Grato Vaglio Bianco, che non aveva mai smesso di protestare la sua totale estraneità ai fatti, fu rimesso in libertà e potè tornare dalla moglie e alla sua vita. Una storia finita (lentamente...) bene anche per il complice di un non delitto. Ecco perché, dopo aver trovato spazio sulle testate nazionali, il caso (irrisolto?) dell'assassinio di Giovanni Giavina Vola, commesso (forse) tra il 26 e il 27 gennaio 1900 a Piedicavallo, arrivò fino in America.
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