La Bürsch, il canto lontano 60 anni di Massimo Sella [Eco di Biella, 7 ottobre 2019]
Tipologia Documento
Data cronica
- 7 ottobre 2019
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
- La Bürsch, il canto lontano 60 anni di Massimo Sella
Il Biellese merita di essere raccontato come si deve, senza cliché
A sessant’anni dalla morte dell’autore è tempo di ristampa
Straordinario oggetto editoriale
Ho letto e riletto "La Bürsch". Ne è venuto fuori un pezzo di spettacolo teatrale (un pezzo: il resto, la più parte, è farina del sacco di Anna Bosazza e di quella banda di maestri maghi matti che si chiama Teatrando). "La Bürsch" è uscito postumo, nel 1964, pubblicato da quel CSB Centro Studi Biellesi che aveva raggiunto la maturità e la statura di una (in realtà l'unica) esperienza intellettuale capace di riflettere per e sul Biellese con la guerra quasi alle spalle e il futuro quasi di fronte. Pubblicare allora "La Bürsch", tra debito e omaggio nei confronti di Massimo e/o del figlio Alfonso, forse fu un gesto giusto, ovvio, scontato. O forse no. Certamente ponderato, soppesato come nello stile del CSB e di chi ne faceva parte. Ma per altrettanto ovvie ragioni di contingenza storica, non pienamente consapevole. Quando si dà alle stampe un volume come "La Bürsch" non lo si è mai. Un gesto, tra l'altro, non così scevro da impegno né dal rischio di innescare conseguenze o, quantomeno, polemiche, perché "La Bürsch" non era il saggio neutro e neutrale di uno degli eruditi che gravitavano storiografando attorno al CSB. Il libro di Massimo Sella non era e non è "apolitico", anzi. In quel suo non sempre scorrevole affabulare, rievocare, tratteggiare c'era e c'è un messaggio ben diverso dal bozzetto folkoristico e passatistico che pare essere a sfogliarlo senza leggerlo, a sbirciarne l'indice travisando con pregiudizio i titoli dei capitoli. Bastano un paio di passaggi del capitolo dedicato all'uccidere (lo spunto veniva dalla vipera soppressa più o meno inutilmente) per capire che la Bürsch è il mondo, che i valìt sono l'umanità e che i modelli di convivenza (dopo la guerra e, soprattutto, dopo il Dopoguerra) sono sempre e comunque glocal, mai né soltanto circoscritti a una comunità ideale minima (come l'Alta Valle Cervo) né facilmente applicabili ovunque e comunque. C'era, tanto per cominciare, da far la pace con la guerra. E non solo con l'ultima guerra, ma con la guerra in senso lato, in quel momento storico in cui Hiroshima aveva sparigliato le carte. E c'era da rammendare lo strappo che gli uomini avevano fatto nel tessuto che li teneva e li tiene uniti a questo pianeta. Lo scienziato Massimo Sella, uno scienziato delle acque e della vita marina per di più, osservava la vallata e si rendeva conto che, anche in quell'ambito, i parametri andavano ricalibrati su una nuova antropizzazione che, come stava accadendo già allora nella Bürsch, non poteva decrescere felicemente e poi sparire. Sarebbe stato un danno per l'ecosistema vallivo che, ormai, includeva gli uomini. La loro assenza avrebbe provocato un disequilibrio pericoloso, perché gli uomini abitavano la valle e la loro presenza, invasiva o meno, non era comunque più discutibile o superflua. La gente della valle reggeva la valle per quel che era diventata in secoli di incidenza sul territorio. Per come si erano messe le cose, c'era una manutenzione da fare, un lavoro di custodia e di tutela che la storia aveva creato e dal quale quella gente della valle non poteva derogare. Quindi dal passato si poteva trarre memoria e impostare per il futuro una pratica (buona) di interazione, senza finzioni né estremi. Forse non sarà tanto di moda, ma l'ecologia antropica di Massimo Sella non era ecologismo dai facili entusiasmi e dalle illusioni da anima bella. Non verdismo d'accatto e nemmeno gretismo d'assalto. Anche qui, misura, idee proprie (discutibili, certo, perché no?), ma più che altro impressioni "grezze", non ancora, e forse mai, pensieri formali e formati. L'avvio di una discussione non sempre coerente, a volte discontinua, ma almeno onesta, non semplificata per ottenere un consenso o un seguito (il Massimo Cacciari de "La Stampa" del 1° ottobre apprezzerebbe). Quella di Massimo Sella, già nel 1964, era la voce di un testimone, di un testimone di eccezione, una variazione sul tema della ricerca "storica" (virgolette assolutamente d'obbligo) sul Biellese, un'analisi un po' libera per gli standard rigorosi, ma legnosi del CSB, tuttavia una occasione da non perdere. In effetti non c'è alcuno studio ne "La Bürsch", almeno non secondo i criteri metodologici del CSB. C'è, invece, molto "studium", inteso come esercizio di passione e predilezione, alla latina, e diversi "studi", intesi come schizzi preparatori da pittore (che resteranno tali, per limiti o per scelta dell'autore). Ma in questo suo essere ribelle non sarà un precursore. Massimo Sella non aprirà in seno al CSB la strada ad altri testimoni non storiografi a tutti i costi (nel 1967 usciranno le pagine di Pietro Paolo Trompeo, le uniche assimilabili a quelle di Massimo Sella, cioè non strettamente osservanti la regola del CSB). Ma sapeva davvero il CSB che cosa stava "mettendo in circolo"? Probabilmente no. Non poteva. Forse il lavoro di Massimo Sella appariva di volta in volta solo per una parte di quel che era ed è in effetti. All'epoca, nel bene e nel male, la complessità dell'opera era inevitabilmente nascosta e schiacciata dalle contingenze e dalla altrettanto inevitabile impossibilità di coglierne gli aspetti "profetici", quelli in cui Massimo Sella preconizzava (prendendoci o meno) il destino della Bürsch. Oggi è tutto diverso. E' cambiata l'Alta Valle Cervo e, soprattutto, siamo cambiati noi. In questo anche uno che "vedeva lungo" come Massimo Sella non poteva prevedere più di tanto. Oppure no... E' il caso di rileggere ancora il libro, nuovamente alla ricerca di segni e interpretazioni di segni, senza forzature, senza mettere in quelle pagine ciò che non c'è, senza incensare né glorificare. Sarebbe il peggior affronto per chi, forse, nemmeno avrebbe voluto condividere su vasta scala quelle sue parole se non con l'amata Edvige, che peraltro era già morta quando le scriveva. In ogni caso "La Bürsch" resta un oggetto editoriale non identificato, quindi interessante. E' più facile, per provare (invano) a definirlo, operare per sottrazione, cioè dire che cosa non è. Non è un diario, o non solo. Non è un saggio né un insieme di saggi, o non solo. Non è una miscellanea antropologica, etnografica, storico-scientifica, glottologica, o non solo. E' una conversazione? Un flusso di scrittura automatica dettata dall'introspezione di un vecchio razionale disperato (un quasi ossimoro)? E quindi una lunga lettera d'amore per Edvige? Lei, Edvige Magnani, amica, compagna e moglie, vera valëtta, scomparsa nel 1943, eppure presente nelle pagine e costantemente "confusa" con la Bürsch. O è la traccia che un uomo ha voluto lasciare di sè, del suo passaggio, sapendo che tutte quelle parole possono valere meno di un nome inciso sulla corteggia di un faggio? Non lo so. So che ogni definizione, alla prova dei fatti, sta larga e stretta ad un tempo. Sia quel che sia, "La Bürsch" esiste ed è un privilegio poterci fare i conti, specialmente quando annoia, quando non convince, quando non piace, quando non scorre come dovrebbe. Forse perchè noi, adesso, lo maneggiamo distratti spesso solo come un album di vetuste cartoline illustrate. Invece è molto di più. Nè meglio nè peggio, ma molto di più. E' una questione di densità e di profondità, di panoramiche e di dettagli, e di possibilità di comprendere, oppure no, ciò che Massimo Sella ha cercato di comunicare agli altri e, più ancora, a se stesso. A sessant'anni dalla morte dell'autore del libro si avverte l'urgenza culturale, morale e anche sociale di una ristampa (meglio ancora in forma di edizione critica). Urgenza ben chiara agli aventi diritti e titoli, e tuttavia non meno netta. Ma perché? Perché abbiamo bisogno di storia e di storie. Di storie perchè, di nostro, ne abbiamo una sola. Perché facciamo trekking nella Bürsch (e in generale tra le montagne biellesi) ma fatichiamo a distinguerla da una qualsivoglia altra zona di passeggiate o da una "palestra". Perché la valle di Massimo Sella (che non era valët, se non per via della nonna Mosca Riatel) ha una storia che deve essere raccontata, perché quel tipo di storie si salva solo con il racconto e non con la saggistica a bassa intensità di lettura. Libri (anche romanzi: Avallone, Accati e Gasparetto docent), filmati, Internet, non importa. Importa che si recuperi la narrazione come atto di testimonianza, come espressione del vivere civile, come responsabilità verso il ieri e, di certo di più, verso il domani. Non per niente lo stesso Sella, riconoscendo il debito storiografico contratto con Remo Valz Blin, iniziò il suo scritto con un excursus storico, un affresco ampio e preciso di quelle epoche remote in cui la Bürsch si formò in termini amministrativi e territoriali. Ma quella era solo la cornice del quadro. Imprescindibile, ma comunque cornice. E il quadro? Il quadro era la Bürsch, ma non solo, anzi a dire il vero quasi mai. Anche la Bürsch diventava cornice delle storie che essa stessa conteneva. E anche queste ultime, alla fine, rimanevano sui bordi. Dentro, al centro, Massimo Sella con i suoi pensieri. Massimo Sella con Edvige. Senza Edvige. Massimo Sella che insegna, buono o cattivo maestro, che il Biellese merita di essere raccontato come si deve, che non può rinunciarvi, che non può ridursi alla caricatura grottesca del monotematismo tessile (e anche in quel campo manca, e tanto, la narrazione profonda, mentre quella che galleggia agonizza dissanguata da cliché e oleografie, esausta di tesi malfatte, scopiazzature e diserzione massiva di archivi e biblioteche). Massimo Sella che insegna, nella sua giovanile senescenza (ricorda, in certi passi, il Siegfried Lenz di "Un minuto di silenzio"), che esiste una biellesità sensuale, pudicamente e malinconicamente erotica, ma erotica, per dire colma d'amore ardente, che passa attraverso i sensi e arriva alla letteratura e alla poesia, che può sciogliere al vivere pieno se stessa, il Biellese, questa colonia sovrapopolata da ricchini, ricconi e riccastri low profile, fisicamente tonici, fighetti, ma niente affatto empatici, depressi e spenti, giovani decrepiti e vegliardi ignoranti. Lo suggerisce (o io credo che lo suggerisca) lui stesso. Lui che non riusciva a spegnersi, lui che viveva come se fosse davvero ancora vivo dopo la morte di Edvige, lui che cercava ancora perché non sapeva fare altro, lui che, come ha scritto Remarque, non lottava più, ma non si era ancora arreso. Perché riprendere in mano "La Bürsch"? Perché è un bel libro. Perché ci rammenta a ogni frase che cosa, del Biellese, abbiamo perduto e che cosa stiamo perdendo (Alfonso non poteva non mettersi sulle orme del padre...). Perché dà fastidio che uno la sappia così lunga e perché fa piacere scovarne i difetti, gli errori, le incertezze. Per discutere un talento discreto, ma sienitico. Perché di libri così, prima e dopo, nessuno da queste parti ne ha mai scritti. E' notorio che "La Bürsch" sia un best seller locale (riconosciuto come tale addirittura per voto popolare), ma è altrettanto notorio che il nostro provincialismo non ci permette di accorgerci che siamo provinciali quando snobbiamo il "nostrano" per paura di passare per provinciali. Così evitiamo l'ingaggio e ci ripariamo dietro un rassicurante universalismo prêt-à-porter, e quel libro diventa uno dei tanti "sul Biellese", da porre accanto sul ripiano ai Roccavilla, ai Torrione, ai Crovella, ai Lebole... Ma purtroppo o per fortuna "La Bürsch" è un'altra cosa. Che cosa, per l'appunto, non lo so. "La Bürsch" è un bel libro perché è disordinato, sghembo, necessitoso di una revisione di bozze, eppure potente e vero. E la lingua? E' scritto in una lingua intima che forse, l'autore, avrebbe passato anni a limare, mai soddisfatto. Una lingua sempre laboriosa, densa e profonda, accogliente al dialetto, a volte avara a volte fin troppo prodiga di note spiegative e traduzioni, per questo impura, nervosa e pacata nella stessa riga, a tratti spontaneamente perfetta, a tratti macchinosa, sporca, non sempre nitida, a volte stonata (lo steccare di un virtuoso che prova incurante di essere ascoltato?). Eppure... Oppure... Oppure, forse, il libro così com'è è sempre stato il "non finito" che avrebbe voluto pubblicare se qualcuno lo avesse convinto a farlo. E se quelle pagine, a Massimo Sella, andassero benissimo così? Ed è stato, "La Bürsch", un esperimento riuscito? Sì, c'è anche un livello sperimentale perché Massimo Sella si è inoltrato, con il suo cappellaccio e il suo ombrello strappato, e il suo sorriso sornione, in un bosco narrativo che a volte ha l'aspetto arioso della faggeta, altre volte quello intricato delle distese di felci e di brugo. Dove porta il sentiero? Da nessuna parte e in tutti i luoghi, perchè non c'è un sentiero. C'è solo un passo dopo l'altro. Oppure c'è una sosta lunga tutto il libro che inizia alla Pila di Oriomosso con uno sguardo che abbraccia la vallata e che, forse, finisce lì, nello stesso punto, ma non ci scommetterei. Ho perso il filo troppe volte per essere certo di aver capito che "giro" ha fatto Massimo Sella. Lui e la sua furba ingenuità da genio, il suo ironico acume da "povero di spirito", la sua capacità più o meno consapevole di mutare inquadratura (fotografica, naturalmente, ma anche filmica, perché "La Bürsch" è, anche, il sontuoso girato di un grande "documentario"), di cambiare registro, tono di voce, scena, scenario, epoca... Per saltare come sui sassi del Cervo, agile e fin troppo disinvolto, dal raccontare al raccontarsi. Lui, e la sua sapienza di condurre le cose e le parole e di lasciarsi condurre dalle medesime cose e dalle medesime parole sfidando chi legge (e se stesso?) a capire chi davvero conduce chi. E' un gioco di specchi e non è detto che Massimo Sella sia nel mezzo. Forse l'uomo è stato identico al suo libro o forse è stato tutt'altro, distante e diverso. La verità dove si trova? Ovunque sia il vero non ha importanza: ciò che abbiamo davanti agli occhi è l'opera, non l'autore. Forse. E su questo distinguo, in questo caso, sarebbe davvero curioso indagare. Tuttavia non mi figuro un Massimo Sella soltanto "ispirato" dalla Bürsch. Credo ne fosse innamorato ma, così come noi non riusciamo a definire il suo libro, anche incapace di offrirsi e offrire una percezione definita. Credo che abbia voluto appuntarsi i dubbi, più che le certezze, arrivato al cospetto di un luogo e del suo spirito di cui si vede, si assaggia, si ode, si annusa e si tocca tutto, ma senza giungere a rappresentare per intero la sua essenza. Come la "lüria" acquattata nel Cervo in piena: se si fissa troppo l'acqua torbida dai ponti o dalle sponde si rischia di finire risucchiati da quel mostro. I bambini che la vedono non possono dirla perché spariscono appena dopo nella corrente della "bura". Ma il Sarv non trascina solo a valle. Richiama con la stessa forza ai monti, come fa con le trote che Massimo Sella pescava con le mani. Il Sarv, il sangue della Bürsch, che si mostra così limpido sotto il ponte di Concresio da chiarire anche l'anima degli uomini.
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