La chiesa di Campiglia e i “capeletti” di Lodi

Tipologia Documento
Data cronica
2022
La pagina del Registro dei verbali delle riunioni della Congregazione Amministratrice della chiesa parrocchiale di Campiglia Cervo 1641-1704 in cui si fa riferimento ai “capeletti”.
La pagina del Registro dei verbali delle riunioni della Congregazione Amministratrice della chiesa parrocchiale di Campiglia Cervo 1641-1704 in cui si fa riferimento ai “capeletti”.

Contenuto

di Danilo Craveia

Hanno ordinato alli sudetti Ministri che chiedano quelle persone quali hanno da dare alla sudetta chiesa massime li capeletti quali hanno li denari delle bussole di Milano, Lodi et Novara come anche altre persone debitore…”. Questo si legge nel Registro dei verbali delle riunioni della Congregazione Amministratrice della chiesa parrocchiale di Campiglia Cervo 1641-1704. Chi sono quelli che hanno ordinato? “Li Huomini della Congregazione” che amministrava, sotto l’egida del Molto Reverendo Priore don Giovanni Battista Furno, la Parrocchia dei SS. Bernardo e Giuseppe di Campiglia Cervo. Chi erano i “ministri”, cioè gli amministratori incaricati? Antonio Ostano, Giacomo Leve, Lorenzo Martello e Carlo Magnano. E che cosa avrebbero dovuto fare questi ultimi? Beh, è semplice (a dirsi…): trovare soldi. Per quali ragioni? C’era il campanile nuovo (quello massiccio che tuttora svetta sull’abitato e sui dintorni) da ultimare, c’era il cimitero (quello attorno alla chiesa) da risistemare, c’erano mille altre spese da affrontare… E mancavano i soldi. Quel giorno, l’Epifania del 1656, nella sacrestia della parrocchiale, gli uomini della Bürsch presero una decisione che avevano già preso altre volte. Raschiare il fondo del barile per recuperare dai debitori qualche spicciolo di interessi su censi e crediti vari. E rivolgersi alla “banca” che la stessa Bürsch aveva in Lombardia (dove si trovava anche Novara).

Ovviamente il termine banca, scritto tra virgolette, non va inteso alla lettera. Va inteso, però, come effettivo deposito di liquidità generato dai tantissimi valìt che proprio in Lombardia lavoravano e vivevano, stagionalmente, ma anche ormai stanziali. La città meneghina e altre più piccole, come Lodi, avevano visto formarsi e prosperare vere e proprie colonie di lavoranti vallecervini che potevano vantare a tutti gli effetti una doppia nazionalità (la Lombardia, all’epoca, era stato estero rispetto al Ducato di Savoia). Alla metà del XVII secolo, già alcune generazioni di valligiani si erano avvicendate in quelle terre. Nascevano qui, si sposavano qui e, per quanto possibile, morivano qui (ma ci sono molti testamenti dettati laggiù a provare che non sempre il desiderio di passare a miglior vita a casa era esaudito). Per il resto, stavano là. Costruivano edifici, strade e fortificazioni. Mastri da muri abili e qualificati, richiesti e probabilmente ben retribuiti. Di fatto “tradivano” il loro signore, il Duca di Savoia, prestando opera per il Duca di Milano, ma il legame con la Lombardia era troppo forte per sottilizzazioni patriottiche. E poi, in fin dei conti, per un valèt, la patria è solo la Bürsch.

Il lavoro di quegli uomini fruttava denaro. Una parte di quel denaro era inserito nelle “bussole”, ovvero cassette di sicurezza, affidate a persone autorevoli e rispettate. Quei soldi servivano per la Bürsch. Non erano i guadagni privati che quei lavoratori mettevano da parte per se stessi e per la loro famiglia. Erano fondi comuni, offerte accumulate per ogni evenienza che riguardasse l’alta valle, un gruzzolo destinato al mutuo soccorso. Questo era il capitale di quella “banca” particolare. Fondata senza tante storie sull’esperienza condivisa di migranti che non dovevano/potevano/volevano perdere le loro radici. Casa era qui, nella Bürsch. I vincoli erano strettissimi, in contatti costanti. Milano, molto più di Torino, quasi più di Biella, era l’ “altro posto” dove stavano i valìt. Una piccola Bürsch nata altrove e fatta non di montagne e di torrenti, ma di gente. Il modello era già vecchio allora e si sarebbe replicato nei secoli successivi, di fatto fino a oggi. Non c’era discontinuità tra la comunità di origine e quell’altra. Lo dimostrano personaggi eccellenti, come il generoso pittore Cucchi da Gliondini e il benefattore notaio Accati da San Paolo Cervo, che ebbero fama e fecero fortuna in Lombardia, il primo nel Milanese, il secondo in Lodi, proprio tra Sei e Settecento, ma non si dimenticarono mai da dove erano venuti.

L’opportunità di rivolgersi ai valligiani attivi a Milano, Lodi, Novara ecc. non poteva essere la regola, ma una frequente eccezione. Anche perché l’iniziativa di intervenire munificamente nel cuore della Bürsch sovente partiva direttamente dai “lombardi”. Furono loro a voler costruire la Cappella del SS.mo Rosario della chiesa parrocchiale e per avviare il cantiere, verso il 1650, misero mano alle loro “bussole”. Ma in caso di necessità, come avvenne nel 1656 (e già prima, nel 1652, e poi ancora nel 1698, nel 1738 e chissà in quante altre occasioni), l’istanza partiva da Campiglia.

Un mese dopo la riunione dell’Epifania, i ministri spiegarono alla Congregazione nuovamente adunata che non c’era modo di incassare granchè dai debitori “cronici” e nemmeno da quelli novelli. Quindi, considerati i “molti debitti per la fabricha [della chiesa]”, non restava che varcare il Sesia e il Ticino e andare a batter cassa, anzi batter bussola. Chi si sarebbe messo in viaggio? “Il Signore Priore e Messer Giovanni Gilardi e li ministri”. E se i “capeletti” avessero risposto picche? In valle si sapeva che i valìt lombardizzati “hano bona partita di dinari”, ma non si poteva mai sapere… “Altramente bisognara far qualche altra provisione”. Ma la trasferta non fu deludente.

Restano, a noi posteri, alcune domande alle quali proviamo a rispondere. Chi erano i “capeletti”? Erano, nello specifico i “passa tetti” o conciatetti, costruttori e manutentori di coperture, ma anche pittori (imbianchini), riquadratori, stuccatori. Un termine generico per indicare dei provetti factotum della rifinitura edile, un po’ artisti, un po’ acrobati, uomini agili e coraggiosi, non certo tutelati dalla 626 eppure disposti a operare in situazioni di rischio. Li chiamavano anche, ma in Piemonte, “schiappa coppi”, e in Valle Elvo “schiaparelli” o “schiapparelli”. Ci sono ancora tanti discendenti di quegli artigiani, il loro cognome non mente.

Dei “capeletti” biellesi tratta il bel libro di Laura Giacomini, Costruire una lauta dimora. Milano nell'età dei Borromeo 1560-1631 (2013). Osservando gli estremi cronologici si nota come la presenza di lavoranti di Biella e dintorni (è citato esplicitamente un certo Tommaso Coppa “bieleso”) è di molto antecedente a questa nostra testimonianza del 1656.

Infine, Lodi.

Lodi e il Lodigiano rappresentano un “problema”, una sfida storiografica rilevante. L’abbiamo già detto e scritto. In quella zona, e più precisamente al Calandrone, presso Merlino, sorge un antico santuario dedicato a San Giovanni Battista. Uno dei pochissimi, forse l’unico, oltre al nostro, intitolato al Precursore di Cristo. Non si tratta di stabilire in primato, ma di indagare l’origine del culto. Forse non vi è una matrice comune. Forse nessun valìt ha esportato la sua devozione da quelle parti. Forse nessun valìt ha importato nella Bürsch la devozione per San Giovanni Battista incontrata da quelle parti. Però… Le coincidenze spesso non sono tali. Abbiamo appreso di come fossero remoti e stretti i legami tra quell’area della Lombardia e l’Alta Valle Cervo, quindi un nesso può esserci, eccome. In attesa di scoprirlo, riflettiamo sulle “bussole”. Si può beneficare la vallata, la sua chiesa e la sua comunità, anche da lontano, anche conducendo una vita distante da quella dei valligiani di ieri e di oggi. Basta non tagliare le radici.

Tema

comune

città

frazione

altro