Le tre bare Dal terremoto di Messina al Maffone di Campiglia Cervo

Tipologia Documento
Data cronica
2021-2022
Messina devastata dal terremoto del 28 dicembre 1908.
Messina devastata dal terremoto del 28 dicembre 1908.

Contenuto

di Danilo Craveia
Comunità Parrocchiale dei Ss. Bernardo e Giuseppe, Bollettino parrocchiale di Campiglia Cervo, 2021-2022


Hanno varcato il mare,

pellegrine funeree su dalle

morte città per venire a la valle

diletta, le tre bare.

Le reliquie straziate

da l’ira bruta de la terra scossa,

le tanto lacrimate e insepolte ossa

son quassù ritornate.

E passa la dolente

esequïe nel vespero di maggio

per le care pendici del villaggio,

tra il verde rinascente.

Son due bare piccine,

(poveri bimbi, a cui la tragica ora

dié l’ali per volar a l’altra aurora

de le luci divine)

e la bara materna

segue amorosa i dolci angeli suoi,

che dicon: «mamma, vien, vien con noi

a una dolcezza eterna.»

Oh! non forse la mamma

ode e protende le braccia scarnite

per ancora avvinghiarsi a le sue vite

come a l’ora del dramma?

Muore il funereo canto

nel fragor del torrente, il corteo svaria

tra i faggi, le campane ampie ne l’aria

versan onde di pianto….

E passa la dolente

esequïe nel vespero di maggio,

per le care pendici del villaggio,

tra il verde rinascente.

Queste otto quartine furono composte a San Giovanni d’Andorno da don Agostino Mersi ai primi di maggio del 1909. Il 7 di quel mese, “il Biellese” le propose in prima pagina. Le tre bare. Per spiegare ai suoi lettori la ragione di quei mestissimi versi, il redattore del bisettimanale diocesano aggiunse una nota in calce: “Si diede la domenica scorsa a Campiglia sepoltura ai resti d’una madre con due bambini, vittime del terremoto di Messina; i tre cadaveri erano portati l’un dopo l'altro con un commovente corteo”. In effetti, le “morte città” indicate dal poeta erano Messina e Reggio Calabria, distrutte dal sisma del 28 dicembre 1908. La scossa durò 37 secondi. Tanto ci era voluto per uccidere metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella calabrese. Ottantamila morti, forse di più.

Tre di loro erano riusciti a varcare il mare e a risalire la valle per trovare requie al Maffone. Ma perché? Che cosa avevano a che fare quei due angioletti e la loro mamma con Campiglia Cervo? Don Mersi assistette a quel funerale vespertino, in quella domenica di maggio. E ne trasse immagini forti. Come quella dell’abbraccio estremo, scheletrico, della madre che ama i suoi figli anche oltre la morte e cerca di proteggerli, come aveva fatto in quegli ultimi istanti di vita.

Il fragore del Cervo, ben meno possente del mare agitato dallo tsunami, e le fronde dei faggi assorbivano il pianto delle campane mentre le tre bare terminavano il loro pietoso viaggio. Erano attese dai giorni del disastro.

Il 22 gennaio 1909, la stessa testata cattolica pubblicò questo breve, ma significativo articolo: “Le rovine sotto cui il cataclisma immane seppellì la nobile città di Messina, coprirono anche, opprimendola, una signora biellese: Irma Savoia”. Basta il cognome per spiegare quel ritorno. Ma che cosa ci faceva una valëtta a Messina? Laggiù ci era andata per ragioni di famiglia. “Maritata al sig. Giovanni Solima, ella aveva due amori, soave cura e cara speranza della vita che perirono seco”. Giovanni Solima era messinese. Aveva impiego a Torino, ma per il Natale era sceso in Sicilia per passare le feste con i suoi cari. Moglie e figli erano andati con lui. “Dalla fatale calamità fu colto insieme con la famiglia diletta; la quale tutta perì, mentr’egli, tratto a stento di sotto le macerie dopo cinque ore di dolorosa agonia, si trovò con la persona tutta contusa e rotta, e la mente turbata dal dolore”.

Domenica 2 maggio i tre cadaveri avevano ricevuto l’estremo saluto. Li seppellì don Fortunato Mazzia, il parroco. Irma seguiva Lauretta e Michelino. Nei registri anagrafici del Comune di Campiglia Cervo c’è una sola Irma Savoia. Risulta nata nel 1890. Si tratta di un’omonima, perché avrebbe avuto solo diciotto anni e già due figli… Quella donna che portava lo stesso nome è sepolta coi Bosazza: non è la Irma morta a Messina. Quindi è probabile che non sia venuta al mondo a Campiglia Cervo. I bambini, invece, sono sicuramente nati altrove. Conosciamo i loro nomi grazie a un documento piuttosto prosaico. Quella mesta domenica l’unico superstite, il vedovo padre, pagò 350 lire di diritti di tumulazione per quattro posti, nella “arcata inferiore T alli numeri 7, 8 e 9 del cimitero parrocchiale”. Giovanni Solima aveva disposto in modo da dare una tomba alla moglie e una per i due figlioletti insieme, poi aveva pensato anche per sé, per poter avere un posto dove andare quando sarebbe toccato a lui. Aveva scelto di trascorrere l’eternità accanto a loro.

Ma le cose andarono davvero così?

Chissà quante storie come questa ha prodotto quell’immane catastrofe. Per farsi un’idea, si deve leggere La terra trema. Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l'Italia, non gli italiani, di Giorgio Boatti (2017) e, più ancora, Trema la notte, ultima fatica di Nadia Terranova (2022).

A quanto pare le tre tombe non esistono più. Un’ispezione accurata del cimitero non le ha individuate. Non è certo neppure che Giovanni Solima si sia fatto seppellire qui. Forse riuscì a superare quella tragedia e a rifarsi una vita. Forse, senza dimenticare Irma, Lauretta e Michelino, potè comunque andare avanti. E non tornò indietro, al Maffone, lasciando un loculo vuoto[1]. Sembra che quelle tre anime sepolte vive laggiù siano state dimenticate anche quassù. Scaduti i diritti, le pietre incise sono state tolte e con esse le ultime, le uniche, tracce della loro esistenza breve e della loro fine tragica.

Tuttavia, qualcuno le vide arrivare quella domenica di maggio del 1909 e ne ebbe pietà. Don Mersi, poeta d’occasione ma non privo di sensibilità, scrisse per loro i versi che le sottraggono al completo oblio. I poeti, quelli sommi, insegnano che solo quella immemore è vera morte. Qualche volta una fragile poesia è più resistente del tempo e una piccola memoria può continuare a essere tramandata.

 


[1] Informazioni reperite più di recente (successive alla pubblicazione del bollettino) hanno permesso di stabilire che Giovanni Sollima si risposò con una donna di Campiglia Cervo, Emilia Moretto, cugina della povera Irma (la madre di quest'ultima, Maria Caterina di Vittorio Gilardi, era la sorella di Marianna, madre di Emilia). Da questa nuova unione nacque Michele, che portava il nome del secondogenito del vedovo. La seconda famiglia Sollima si trasferì a Milano e Michele si impiegò nelle Ferrovie dello Stato come già suo padre.

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