Breve storia del romito Magnano

Tipologia Documento
Data cronica
giugno 2021
L’incisione all’acquatinta realizzata da Gaetano Arghinenti dalla veduta, presa dal vero, di Marco Nicolosino ai tempi dell’eremitaggio di Pietro Giuseppe Magnano. Fu inserita nel secondo volume dell’opera di Modesto Vittorio Paroletti pubblicata nel 1825 con il titolo Descrizione dei santuarii del Piemonte più distinti per l'antichità della loro venerazione e per la sontuosità dei loro edifizii opera adorna delle vedute pittoresche di ogni santuario dedicata alla S.R.M. di Carlo Felice.
L’incisione all’acquatinta realizzata da Gaetano Arghinenti dalla veduta, presa dal vero, di Marco Nicolosino ai tempi dell’eremitaggio di Pietro Giuseppe Magnano. Fu inserita nel secondo volume dell’opera di Modesto Vittorio Paroletti pubblicata nel 1825 con il titolo Descrizione dei santuarii del Piemonte più distinti per l'antichità della loro venerazione e per la sontuosità dei loro edifizii opera adorna delle vedute pittoresche di ogni santuario dedicata alla S.R.M. di Carlo Felice.

Contenuto

di Danilo Craveia
La Voce di San Giovanni, Bollettino di San Giovanni


Tra il 1° e il 4 maggio 1805 la vita di Pietro Giuseppe Magnano cambiò. Fu una sua libera scelta, quella di farsi romito al Santuario di San Giovanni d’Andorno, e non se ne pentì. Anzi, da allora visse sempre nella sua severa dimora accanto al Battista, di cui era senz’altro un grande devoto. Quando morì, settantacinquenne, alle sei di mattina del quattro marzo 1847, aveva trascorso gli ultimi quarantadue anni al servizio del santuario. Nell’atto di morte è indicato come sacerdote, ma all’inizio di questa storia era un laico desideroso di dare un nuovo e impegnativo corso alla propria esistenza.

Pietro Giuseppe Magnano, che all’epoca della sua svolta eremitica aveva trent’anni, aveva sicuramente voluto seguire l’esempio di tanti altri valligiani (ma anche di diversi forestieri) che avevano a loro volta, prima di lui, inteso assumere un incarico tutt’altro che contemplativo e lieve, anzi faticoso e totale. Le cappelle del Sacro Monte, che da Campiglia Cervo ritmano la strada per il santuario, raccontavano, già a quei tempi, lo spirito di abnegazione e di rinuncia di altri antichi (santi) eremiti, esposti alla durezza dell’isolamento per il corpo e, più ancora, alle insidie delle tentazioni per l’anima. Affreschi e statue erano e sono il manifesto agiografico di un modus vivendi che Pietro Magnano conosceva bene per averlo avuto davanti agli occhi e al cuore fin dall’infanzia, perché gli eremiti, in carne e ossa (non santi), nella Bürsch non erano mai mancati.
 

Chissà se era un suo avo quel Giovanni Battista Magnano, “heremita quinquagenarius Sancti Johannis Baptistae”, morto il cinque gennaio 1713 ultrasettantenne, dopo dieci lustri di eremitaggio, e sepolto nella chiesa parrocchiale di Campiglia Cervo con tutta la pompa e un’intraducibile “totius aeris bombambinatione”?

L’11 aprile 1803 si era reso defunto Giuseppe fu Antonio Vanni, eremita di San Giovanni d’Andorno. Aveva circa sessant’anni e fu seppellito nella chiesa del santuario. Prese il suo posto Giovanni Battista Iacazio, ma la sua permanenza durò poco. Nella primavera del 1805 fu costretto a dimettersi per problemi di salute. Questa notizia la dice lunga sulla necessità che gli eremiti fossero in forze. Le loro mansioni prevedevano non solo interventi di varia natura per la gestione e la manutenzione della chiesa (anche con compiti da sacrista) e del santuario in sé, ma anche, e soprattutto, la mobilità che presupponeva la questua in giro per la diocesi, et ultra.

Preso atto della rinuncia del Iacazio, Pietro Magnano si fece avanti proponendosi per subentrargli. Il primo maggio 1805, in pieno fermento imperial-napoleonico, la Congregazione amministratrice del Santuario di San Giovanni Battista (composta da don Barnaba Tempia, parroco e vicario foraneo di Campiglia Cervo, nonché rettore del santuario medesimo, Giacomo Leve, Giorgio Martinero, Giovanni Battista Mosca e Sebastiano Allara) “informata delle lodevoli qualità di cui resta fornito Pietro Giuseppe fu Pietro Paolo Magnano di S. Paolo”, lo aveva “concordemente nominato, ed eletto per eremita”. Gli amministratori avevano precisato che la nomina, ed elezione, comportava “tutti gli obblighi, pesi, e diritti à tale impiego annessi”, rimettendosi per l’opportuna approvazione al “Superiore Ecclesiastico”.

L’autorità ecclesiastica biellese viveva, in quel frangente, le difficoltà derivate dalla “riorganizzazione” della struttura amministrativa territoriale voluta dal governo francese. La Diocesi di Biella, istituita solo nel 1772, era stata soppressa e riaccorpata a quella di Vercelli dalla quale era stata smembrata. Di conseguenza, a Biella, il vescovo non c’era più, quindi in città si poteva trovare solo il vicario di quello vercellese. Al rappresentante della Curia eusebiana si rivolse, infatti, il postulante con un breve manoscritto di supplica con cui informava di essere stato designato “ad occupare l’impiego di romito”, ma per entrare in carica occorreva il placet ecclesiastico, anche per aver “la facoltà di vestire l’abito decente a tale impiego, e di poter toccare i sacri vasi”.
 

La risposta, in latino, arrivò il 4 maggio. Recava la firma del vicario generale canonico Saverio Gambarova che scriveva in nome e per conto di monsignor Giovanni Battista Canaveri, indicato, per quanto non più in carica dal 1803, come “Dei et Apostolicae Sedis gratia Episcopus Bugellensis”. Il canonico Gambarova ripercorreva in sintesi la breve vicenda di quella particolare vocazione. In primis rammentando che il supplicante era “probis christianisque moribus imbuto, prout fide digno comprobasti testimonio”, ossia che aveva fatto deporre da testimone degno di fede circa i suoi onesti e cristiani costumi (“imbuto” non ha nulla a che fare con l’utensile da cucina… sta per educato secondo i citati costumi), e richiamando la “attenta submissione per te in registris Curiae Nostrae facta”, cioè verificata la sua “adesione” al modello di vita clericale.

Con queste premesse il Magnano otteneva il desiderato “ut habitum clericalem ad instar clerici saecularis deferre valeas concedimus”, cioè che poteva portare l’abito da prete, alla maniera dei preti secolari.
 

Ma c’erano alcune condizioni da soddisfare e delle rigide regole da non infrangere. “In cubicolo, quod tibi assignabitur ingressum mulierum nullatenus admittas, neque ipsas frequentes sub poena gravi”. La prima limitazione riguarda i rapporti con le donne. Non potevano essere in alcun caso ammesse nella camera che gli sarebbe stata assegnata all’interno del santuario, e non poteva frequentarle nemmeno fuori. Ovviamente non si trattava di evitarle in tutti i sensi, ma di imporre all’eremita un regime di castità consono alla veste che portava e al ruolo che rivestiva. Non aveva preso i voti, ma doveva comportarsi come se. D’altro canto, la figura dell’eremita doveva distinguersi da quella dei mendicanti vagabondi per la sua rettitudine, altrimenti non avrebbe avuto efficacia quella sua azione di “fundraising”, tanto in denaro, quanto in natura, basata sulla credibilità del soggetto questuante. Se si fosse insinuato, in valle come altrove, il sospetto di comportamenti appena opachi o disonesti in senso morale, il romito avrebbe perso la sua aura di uomo devoto e di esempio di vita.

Oltre a questo, Pietro Giuseppe Magnano non avrebbe potuto assentarsi da San Giovanni d’Andorno “ultra triduum sine licentia eius qui tibi praeerit”. Come a dire che l’eremita doveva rendere conto dei suoi spostamenti, se protratti più di tre giorni, al suo diretto responsabile, cioè il rettore, anzi averne preventivamente il permesso.

Ad tui tamen substentationem, si aliunde provisus non existas facultatem tibi elargimur, ut eleemosynas per universam dicti loci paroeciam, nec non alibi, ut moris est, quaesitare possis et valeas”. Rivolgendosi, come in tutta la missiva, direttamente al valët, il vicario generale lo informava circa la facoltà concessagli di provvedere a se stesso, se non vi erano altre possibilità, attraverso l’elemosina da chiedere entro i confini della parrocchia, o altrove, secondo l’abitudine.

I rapporti economici tra il romito e il rettore del santuario, lavoratore e datore di lavoro, erano poi regolati da un semplice calcolo matematico-finanziario. Se le questue si fossero rivelate più fruttuose del previsto o se, in ogni caso, superiori alle effettive necessità di sostentamento dell’eremita, quest’ultimo era tenuto a corrispondere il surplus allo stesso rettore, “sub poenis nobis arbitrariis”.

Per quanto riguarda, infine, la partecipazione alla vita religiosa del santuario, Pietro Giuseppe Magnano avrebbe dovuto “predictae Ecclesiae inferrias et ad beneplacitum D. Rectoris, in abito predicto jugiter incedas, nec non Sacramenta frequentes”, che significava recarsi in chiesa a beneplacito del rettore per accedere ai sacramenti, e sempre indossando l’abito di cui sopra.

Il rispetto di queste norme avrebbe permesso al romito di godere appieno della sua privilegiata condizione che, oggi, appare forse non così allettante. In verità, però, anche in questo nostro tempo sempre più persone cercano risposte solitarie alle domande del mondo e della vita. La via dell’eremitismo alla vecchia maniera non è poi così discosta dai modelli della “decrescita felice” ora tanto in auge e, spesso, certe esperienze si credono differenti solo perché portano denominazioni differenti. Certo, la scelta di Pietro Giuseppe Magnano era e sarebbe tuttora piuttosto radicale, ma non essendo stato né il primo né l’ultimo, va considerata con attenzione e rispetto.

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