Gente di Rosazza in giro per il mondo [prima parte]
- dicembre 2021
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- di Danilo Craveia
Bollettino della Parrocchia di Rosazza, dicembre 2021L’Archivio Parrocchiale di Rosazza conserva tracce interessanti dell’emigrazione dei rosazzesi. Non è certo una novità che i valìt siano stati grandi lavoratori-viaggiatori e la gente di Rosazza ha fatto la sua parte per portare la Bürsch nel mondo. In tutta l’Italia senza dubbio, ma anche al di fuori, ed è sull’estero che si può concentrare l’attenzione in questo caso.
Ci vuole non poco spazio e altrettanto tempo per raccontare tante storie di tante persone, quindi questo racconto non può essere l’unico, e riguarda per l’appunto il primo periodo di esistenza della Parrocchia dei Santi Pietro e Giorgio, costituita nel 1824. I registri dei sacramenti tramandano vicende di uomini e donne che lasciavano il paese alla volta di terre lontane. Per alcuni di loro si trattò di viaggi senza ritorno. Fino a quando non entrò in funzione lo Stato Civile del Regno d’Italia, il 1° gennaio 1866, i libri anagrafici tenuti dai parroci rappresentavano l’unica testimonianza delle esistenze delle persone. Ridotte a ben pochi segni sulla carta, certo, ma comunque meglio dell’assoluto oblio. Con quei pochi segni si possono tracciare sulla mappa i percorsi dei rosazzesi fino al loro ultimo giorno. È un’esperienza un po’ triste, ma quella gente di Rosazza fa ormai parte della lunga storia del mondo ed è con lo sguardo di chi è curioso della storia del mondo che è opportuno osservare quei fatti lontani.
Luoghi lontani accomunano i destini dei rosazzesi che, tra il 1824 e il 1865, partirono e non tornarono o, se tornarono, lo fecero solo per morire appena dopo. Come Costantino Edoardo Antonio Rosazza Mina, che mancò ai vivi il 26 settembre 1861 “reduce dalla Spagna già infermo”. Non è specificata la ragione per cui il suddetto fosse stato in Spagna. Reduce da che cosa? Dai grandi lavori ferroviari che in quel periodo si svilupparono in Catalogna, sulla linea Barcellona-Saragozza? La Spagna inquieta della guerra col Marocco, delle guerre civili carliste, la Spagna agitata dalle rivendicazioni sociali dei lavoratori catalani. Laggiù si era ammalato, non si sa di che cosa, ed era riuscito a rientrare, ma non per molto. Era nato ad Andorno l’11 gennaio 1843: non aveva trentanove anni. Questo è quanto si può apprendere dal primo libro dello “Stato d’anime” della parrocchia.
La stessa sorte toccata a Raimondo Giovanni Maria Peraldo Dan Matton, classe 1829. Dalla medesima fonte si scopre che morì il 28 agosto 1862 “reduce dalla Spagna da due mesi, dove si era fermato cinque anni, ed aveva contratto il male, causa di sua morte”. Restano le stesse domande. Quale malattia lo aveva ucciso a trentatré anni? Un male inesorabile, ma lento, che gli aveva permesso di finire i suoi giorni in patria. Il rosazzese sapeva di non avere speranze quando si era messo in cammino dalla penisola iberica e intendeva morire a casa, oppure, accortosi di essere malato, aveva sperato che il ritorno alla sua valle gli avrebbe salvato la vita?
Pietro Bernardo Mosca, invece, non aveva avuto quella possibilità. Don Domingo de Anuncibay, parroco di Izarra, ne attestò il decesso avvenuto 9 luglio 1860. Izarra è una piccolissima comunità dei Paesi Baschi. Misera agricoltura sulle colline tra i Pirenei e l’Atlantico. Che cosa facevano lì Pietro Bernardo Mosca e sua moglie Teodora, sua compaesana? Don Domingo amministrava una parrocchia povera, ancora segnata dalla disgrazia del 1816, quando la sua chiesa era crollata durante la messa seppellendo tanti fedeli. Il rosazzese, che aveva trentaquattro anni, era morto con la sola Estrema Unzione “per essergli sorvenuti ripetuti accidenti di mal di cuore”. Fu sepolto nel cimitero della parrocchiale dedicata alla Madonna del Rosario. Ma è probabile che il valët sia passato a miglior vita circondato da quei “suoi concittadini e compagni” che comunicarono a Don Domingo le informazioni riportate nel documento arrivato poi a Rosazza. Quindi c’erano altri rosazzesi da quelle parti? A quanto pare sì. E perché? E di Teodora, che cosa ne è stato? Rimase nei Paesi Baschi o, una volta vedova, decise di prendere la strada di casa? Fu lei a portare all’arciprete Don Porrino, allora parroco di Rosazza, l’atto redatto in spagnolo che attestava il decesso del marito?
Lo scritto di Don de Anuncibay fu tradotto da Pietro fu Giovanni Battista Rosazza Marlero, “il quale pratico per suo soggiorno nella Spagna”, non ebbe difficoltà.
Ma i rosazzesi avevano anche altre mete. Per esempio la Corsica. Lo si evince dagli stessi registri, che documentano la presenza di parecchi valìt di Rosazza impegnati sull’isola. A fare che cosa? Quello che li rendeva apprezzati: lavorare la pietra. Per conto dell’instabile Repubblica Francese post-napoleonica che aveva assoluta necessità di “civilizzare” un territorio, quello corso, ancora selvaggio e difficilmente controllabile. Infrastrutture di ogni tipo mancavano in Corsica e c’era davvero un’occasione per tutti coloro che avevano animo di lavorare duramente. Come avvenne per il mastro scalpellino Battista Rosazza Riz, nato nel 1804. Che fu ucciso ad Ajale, lungo le sponde del Lagani, un ruscello affluente della Tartagine, nel comune di Castifao. Da quelle parti dimorava con la moglie, Maria Caterina Virgilina Rosazza. Un colpo di pistola lo ferì mortalmente, sparato da un uomo di Pietralba, Ange François Battagline. Null’altro è possibile dedurre dalle carte disponibili: né la ragione dell’omicidio, né gli esiti del gesto. Era il 4 aprile 1839. La morte non sopravvenne immediatamente. Il curato Barthélemy Gafforj, che era anche il medico della comunità, riuscì a somministrargli i conforti della religione. Spirato che fu, il corpo del rosazzese fu trasportato nella chiesa di Saint-Nicolas e, avvenuta la visita al cadavere da parte del maire di Castifao, sepolto nel cimitero. Quasi un anno dopo, nel febbraio del 1840, tale Teodoro Rosazza, di passaggio per Bastia, si recò dal console del Regno di Sardegna per richiedere trascrizione dell’atto di morte originale, ovviamente compilato in francese. Entrambi i documenti sono inseriti tra le pagine del libro dei morti di Rosazza.
Sempre nel 1840, alle otto del mattino del 23 maggio, moriva ad Ajaccio Antonio “Valzi”, ventinovenne “tailleur de pierre”. Due suoi amici, Francesco Maria e Pietro Raimondi, padre e figlio, che abitavano in rue Notre Dame, avevano dichiarato (senza firmare in calce alla dichiarazione, perché analfabeti, tant’è che fu un certo “Peraldi” o Peraldo, un altro valët, a sottoscriverla per loro) che il rosazzese era deceduto nell’Hospice Civil della città. Non è dato a sapersi perché vi fosse ricoverato: un malanno, un infortunio sul lavoro, un fatto violento? Ciò che si sa è che lasciava il padre, Giovanni Battista Valz, anch’egli scalpellino, la madre Anna Maria e la moglie Anna Vittoria Rosazza.
Diversi anni più tardi, nel 1856, i rosazzesi erano ancora stabilmente presenti in Corsica. Lo testimonia la morte di “Fabbio” Pietro Leone Norza Fabian. Anche lui si guadagnava da vivere con la punta e la mazzetta e “depuis plusieurs années” risiedeva a Bonifacio. Morì in un letto dell’albergo di Michele Carrega, in rue du Fondaco, il 30 novembre, mentre il sole tramontava. Aveva quarantacinque anni. Doveva essere ammalato da qualche tempo perché non si trattò di un decesso improvviso. Il reverendo don Panzani, vicario del parroco don Rocca, ebbe modo di confessarlo, comunicarlo e di ungerlo prima che spirasse “nella Comunione della Santa Madre Chiesa”. Nessuno sapeva se avesse parenti in patria, né chi fossero i suoi genitori. Ma doveva avere degli amici che si presero cura di lui fino alla fine. Soprattutto l’aubergiste di cui sopra e suo figlio Bonifacio, che faceva il cantonnier.
Il 1° maggio 1857 un altro lavoratore di Rosazza chiuse la sua giornata terrena in Corsica. Il quarantatreenne Giovanni Teodoro Rosazza Vercellino Gat (forse quello che passò da Bastia nel 1840?) morì ad Ajaccio.
La Francia aveva attratto molta manodopera dell’Alta Valle Cervo fin dalla seconda metà del Seicento. Specialmente in Savoia, che all’epoca era “italiana”, ma anche in altre regioni. Nel periodo qui preso in esame l’emigrazione più o meno stagionale dei valìt in terra transalpina era quindi un fatto normale. In quel contesto di normalità era prevedibile che alcuni avrebbero trovato Oltralpe non soltanto la vita, ma anche la morte. Andò così per Giovanni “Mosqua Rialet”, ossia Mosca Riatel, che sull’estratto dell’atto di morte fu definito “cosmopolite”. Una bella definizione, molto adatta per i valligiani della Bürsch che avevano una piccola patria nel cuore e tutto il mondo davanti agli occhi. Si rese defunto a Échallon, un villaggio dell’Ain, tra Oyonnax e il Rodano, venti chilometri a ovest di Ginevra. Naturalmente era uno scalpellino. Come lo fu suo padre, Giovanni Battista. Era morto verso sera, il 29 settembre 1844, nella casa della vedova Benque, dove viveva. Fu il di lei figlio, il negoziante Jules Benque, con il maréchal Célestin Humbert, entrambi amici del quarantacinquenne di Rosazza, a recarsi dal sindaco per dichiararne la dipartita. La sua vedova, la sarta Maria Rosazza Riz, avrebbe appreso della morte del marito attraverso la comunicazione inviata dal maire Échallon, Monsieur Joseph Berger, al parroco di Rosazza? Probabilmente sì, e non si sarebbe stupita. Era capitato ad altre donne del paese e sarebbe successo ancora.
Sarebbe successo due anni dopo, quando Giovanni Battista Mosca Minudro Carletta mancò ai vivi in quel di Annecy il 27 luglio 1846. Era un soldato. Aveva trentasei anni. Non si hanno altre notizie, se non che morì nell’ospedale del reggimento cui apparteneva.
Anche Pietro Giorgio Rosazza Buro Canon è sepolto in Francia. A Scionzier, sulla riva sinistra dell’Arve, appena dopo le gole di Cluses. La terra dell’Alta Savoia accolse le spoglie del rosazzese che fece una brutta fine, il 16 giugno 1864, quando due pietre lo schiacciarono a livello delle costole in quel di Vougy, non lasciandogli scampo. Il parroco di Scionzier-Marnaz, don Varney, scrisse una lettera alla vedova, “Madame” Caterina Peraldo (fu lei a consegnarlo a don Porrino affinché lo inserisse nei registri parrocchiali). Un breve messaggio accorato e dolente (riprodotto qui di seguito) dal quale emerge affetto e rispetto per il defunto lavoratore nato a Rosazza nel 1825. I suoi compagni di cantiere gli furono accanto e il fratello, che a sua volta lavorava non lontano, lo raggiunse per l’estremo saluto il giorno dopo, “versant des larmes”.
A volte era il cammino a essere fatale per gli emigranti rosazzesi. Raggiungere i cantieri nei quali far valere l’abilità di scalpellini non era sempre agevole, anzi. Lungo la strada si potevano verificare incidenti gravi. Un fratello del succitato Pietro Giorgio, Andrea Rosazza Buro Canon, secondogenito di Antonio Stefano e Maria Caterina Rosazza Cilin, nato nel 1813, finì i suoi giorni mentre cercava di valicare il Gran San Bernardo, il 9 marzo 1838. Sul registro dello “Stato d’anime” si legge: “avvolto fra una grossa valanga con altri suoi compagni”. Dove erano diretti? E chi erano quei suoi compagni? Altri valìt? La temperatura è già troppo alta in quel periodo dell’anno? O fu uno di qui casi in cui la montagna si comporta in modo imprevedibile? I cani uscirono dall’ospizio alla ricerca degli sfortunati viandanti? San Bernardo è il patrono di Campiglia Cervo (sulla volta della parrocchiale, in effetti, è raffigurata una scena piuttosto eloquente, con i famosi cagnoni intenti al salvataggio di un malcapitato travolto da una valanga), non di Rosazza… I rosazzesi avevano voluto “smembrare” la loro parrocchia perdendo quella tutela celeste… Pensieri oziosi.
Per i rosazzesi la Francia rappresentò il porto di partenza per l’Algeria. Colonia francese dal 1830, l’Algeria, soprattutto al suo interno desertico e montuoso, fu sempre un territorio problematico, difficoltoso da governare e sempre in stato di guerriglia contro i colonialisti invasori. Sulla costa o comunque a nord dell’Atlante, la Francia aveva stabilizzato il suo controllo, se non altro nei centri principali, come Mostaganem. Nel 1851, e più precisamente il 14 settembre, proprio nella città portuale, morì il muratore Giovanni Rosazza. Furono un infermiere dell’ospedale militare, dove il rosazzese cessò di vivere, e il segretario comunale a sbrigare le pratiche burocratiche. Sapevano che era un muratore e nient’altro: quanti anni avesse, chi fossero i suoi genitori, se fosse sposato…
In terra algerina gli fanno compagnia Cristiano Peraldo e Pietro Rosazza. Il 25 ottobre 1856, a Sétif (entroterra ondulato e arido sull’antica via tra Algeri e Annaba), rese l’anima a Dio il primo dei due, muratore ventiseienne. Abitava in rue de Constantine, presso la “maison Moraly”. Fu Giovanni Martinazzo, suo collega, a dichiararne il decesso. Il 10 dicembre 1859, sempre a Sétif, ma all’Hôpital Militaire dell’Armée d’Algérie, si spense il secondo, probabilmente muratore a sua volta. Era malato di tisi e lo avevano ricoverato a metà novembre, ma non lo avevano salvato. Aveva trentotto anni e nessuna famiglia, né a casa né laggiù.
Chiude questa lista (sicuramente incompleta) Antonio Rosazza Mina, il rosazzese che, dei suoi contemporanei deceduti prima del 1866, è quello morto più lontano. Il ventitreenne era un soldato, anzi un bersagliere. Come tale fu scelto per partecipare alla spedizione del Regno di Sardegna in Crimea. In quella guerra ne uccise più il colera che il nemico russo. Toccò ad Alessandro La Marmora il 7 giugno 1855, toccò al giovane di Rosazza il giorno prima. Quel “figlio” di “Papà Sandrin”, inquadrato nella 6a Compagnia di quel reggimento spedito nel Mar Nero, morì nello “Spedale Militari dei Cholerosi di Chamara” e lì vicino fu sepolto. Questo si legge sull’estratto dell’atto di morte inviato al parroco di Rosazza dal Comando di Spedizione in Crimea. Sul solito libro dello “Stato d’anime”, invece, si legge questa nota: “morto di Cholera in Kamarra nell’Oriente, bersagliere nella 6a Compagnia, all’assedio di Sebastopoli, quando Francesi, Inglesi, Turchi e Sardi si collegarono conto la Russia”. Il bersagliere Rosazza Mina non fu l’unico rosazzese a subire infausto destino per causa del colera. Antonio Rosazza Manuel nel 1854 a Stella, presso Savona, non resistette all’assalto del fiero morbo, ma questa è un’altra storia. Questa continuerà con altra gente di Rosazza (morta) in giro per il mondo, dopo il 1865.