Liber, in piemontese sta per libro e libero, come il Tavo [Eco di Biella, 29 maggio 2023]
- 29 maggio 2023
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- articolo di giornale
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Liber, in piemontese sta per libro e per libero, come il Tavo
Domenica 4 giugno sarà visibile il cantiere dell’archivio e della biblioteca di Gustavo Buratti e la "an-cà da fè" di Bussetti
La Bürsch accoglie e restituisce il lascito di un suo figlio d’elezione
Il lascito: la libertà è in cammino sui sentieri dell’umanità
Una delle presenze più consistenti nella raccolta biblioteconomica di Gustavo Buratti è quella dei dizionari e dei vocabolari. Ce ne sono di tutti i tipi. Dal Saggio sui dialetti gallo italici del Biondelli (1853) alla Grammaire bretonne di Roparz Hemon, dal frasario gaelico al Saggio di vocabolario della lingua cisalpina e celtico di Pietro Monti (1856). Sono tutte chiavi che aprono porte: oltre le soglie ci sono non solo altre lingue, ma altre civiltà e umanità. Il Tavo aveva una ricca raccolta di pubblicazioni biellesi, quelle che ci si aspetta da uno che studia il Biellese come faceva lui. Ma è l’orizzonte a colpire di più, non la prossimità. E l’aggiornamento. Il Tavo era aggiornato sulla cultura catalana e su quella occitana, su quella ladina e quella walser. Spicca poi la ricerca di testimonianze di quel “sottobosco” letterario piemontese, fatto di prosa e di versi, che si mostra attivo e vario, almeno fino agli anni Novanta. Quando il riordino sarà completato, il catalogo dei volumi si comporrà di alcune migliaia di titoli e le riviste (spesso in forma di semplici ciclostili) incrementeranno il numero e accresceranno la qualità di un corpus straordinario proprio perché così vario.
Era già vecchio e non più tanto in forma. Me lo ricordo così, il Tavo, che prende la parola in un evento al Museo del Territorio. Dal pubblico, non so più per quale ragione, il Tavo inizia a pensare ad alta voce. Sull’acqua, sull’acqua che Biella ha voluto nascondere, tombare, come se ne provasse vergogna, dell’acqua che scorre ancora, ma non più visibile. In altri paesi l’acqua passa sulle strade, tra le case, dice il Tavo – e tutti lo ascoltano anche se ha più poca voce -, pulita e non sporca, corrente. Non del tutto libera, certo, ma non soffocata sottoterra. Mi è rimasto impresso questo suo ragionamento così semplice, eppure così profondo. Senza rabbia da sfogare né ribellione repressa, ma con il senso della piena consapevolezza di un dato di fatto e l’indicazione di una alternativa possibile in cui il vivere urbano degli uomini e la natura riescono a coesistere. L’acqua può irrigare le città. Non è necessario arrivare agli estremi, agli aut aut dei radicalismi ambientalisti. Con un po’ di sana tolleranza tutto e tutti possono convivere. Le carte e i libri di Gustavo Buratti sono a San Giovanni d’Andorno da qualche mese, donata dagli eredi. Sono in fase di sistemazione e domenica si potrà accedere a quel cantiere animato da volontari che stanno svuotando scatoloni, riempiendo ripiani e compilando liste. Ma che cosa si vedrà? Un insieme di fascicoli e di volumi? Un archivio e una biblioteca? Sì, certo, ma che cosa rende queste raccolte tanto speciali? Non ci sono opere di particolare pregio editoriale e neppure tomi di chissà quale antichità o rarità. E i documenti? Per lo più appunti, bozze, corrispondenza varia… Adesso che sono (quasi) in bell’ordine, adesso che lo studio stesso, con in suoi mobili, del Tavo è stato ricreato nella sala più grande della biblioteca del santuario, quella collezione non svela subito quello che è in realtà. Bisognava vederla a Chiavazza, nel suo “habitat”, dove è lentamente nata, dove è cresciuta accanto a chi l’ha generata, una vita parallela a una vita. Gustavo Buratti non era metodico e il suo disordine creativo, chiamiamolo così, era molto… creativo, ma non è questo il punto. L’insieme di quei fogli manoscritti, di quelle pagine stampate, di quelle immagini rappresentano un lungo percorso di libertà. Libertà dagli schemi, libertà dai metodi, libertà dai criteri che dovrebbero distinguere un intellettuale da un libero pensatore. Libertà da etichette di qualsiasi tipologia. L’eredità culturale di quel suo viaggio di conoscenza va visto anche e soprattutto come un cammino di esperienze della realtà, ma sempre senza limitazioni imposte o autoimposte: ecco perché i contorni degli interessi culturali del Tavo sono così ampi e smarginati nello spazio come nel tempo. Gustavo Buratti sfugge alle definizioni proprio per questo: si è occupato del passato e ha combattuto nel presente e per il futuro, ha vissuto i luoghi più profondi della biellesità, ma non è stato meno intensamente legato a posti lontanissimi. Il denominatore comune è stata l’umanità. Le carte e i libri di Gustavo Buratti restituiscono i mille sentieri dell’umanità su cui il Tavo ha camminato e gli altrettanti che ha tracciato. Come Tiziano Terzani, anche Gustavo Buratti aveva lasciato le autostrade e gli autogrill per tagliare per i prati e per raggiungere le sue baite, quelle della Bürsch, ma anche quelle più distanti, quelle del cuore e dello spirito. Scoprire, gli uni accanto agli altri, gli opuscoli in dialetto nostrano e quelli in dialetti mai sentiti, offre la prospettiva giusta per cogliere il valore cercato e trovato dal Tavo: il dialetto in sé, che sia il nostro o quelli di genti albanesi, malgasce o native americane. Il dialetto come elemento di appartenenza e come segno d’identità. Inutile attribuire maggiore e minore importanza all’uno o all’altro. L’importanza sta nell’esistenza e nella strenua conservazione di quell’esistenza, perché non si può ignorare l’ecosistema culturale nel quale le minoranze si estinguono soffocate, come l’acqua a Biella, dalle maggioranze e dalla globalizzazione, che non è quella “buona” dei compagni di strada del Tavo, ma è quella “cattiva” che non riguarda i costumi, ma i consumi. Nel dialetto che parliamo (sempre meno, sempre peggio) la stessa parola, “liber”, ha due significati: libro e libero. Senz’altro un caso. Oppure no. Si può essere più liberi dei libri o nei libri? Non c’è confine e non serve ordine. Il disordine dell’archivio e della biblioteca di Gustavo Buratti era la sua libertà non solo creativa, ma espressiva e introspettiva. Impossibile riprodurla davvero. E a che pro? Tanto vale conferire un ordinamento funzionale alla consultazione. Si legge che Gustavo Buratti si è impegnato nella difesa degli oppressi. Forse non è il caso di farne un Robin Hood a tutti i costi. Di sicuro, però, ha voluto conoscerli nelle rispettive alterità come nelle reciproche similarità. Le sue raccolte, più o meno seriali, suggeriscono l’indagine dei tratti distintivi, che tutte le civiltà possiedono, e dei tratti somiglianti che le accomunano. Soprattutto quando sono in pericolo e non per forza in ragione di oppressioni vere o presunte, ma anche solo perché, spesso, la Storia opprime senza crudeltà, ma per semplice evoluzione naturale delle specie. In questo processo il tempo non conta. Tra noi e Fra Dolcino ci sono sette secoli, ma che cosa importa? C’era un sistema e qualcuno che andava contro a quel sistema. Tuttavia, abbiamo una rappresentazione così distorta dei fatti e delle interpretazioni dei fatti, che l’eresiarca del Monte Rubello potrebbe essere tanto un assassino senza dio quanto un San Francesco d’Assisi incompreso. O entrambi. Il Tavo propendeva per l’ipotesi di un apostolo del dissenso stroncato con una crociata. Oppure si trattava anche e soprattutto di tutelare la possibilità per chiunque di vedere in Fra Dolcino quel che si vuole? Di per sé, l’uomo che fu Fra Dolcino e la sua comunità di puri o setta eretica che fosse, non avevano né hanno più alcun peso, ma il loro essere un simbolo, sì. E quel simbolo non poteva e non può essere cancellato o manipolato da altri simboli. Il cippo risollevato nel 1974 non fu un omaggio ai socialisti che eressero l’obelisco in occasione del sesto centenario della morte all’inizio del Novecento, ma fu l’esito di una riflessione sul rischio dell’oblio della vicenda dolciniana in sé e per sé. E sul diritto di contestare che va preservato sempre e comunque opponendosi alle crociate in qualsivoglia veste si presentino. Così, libertà fa rima con dolcinità, ma anche con valdesità o zingarità… Gustavo Buratti è stato un nodo di una grande rete. I suoi corrispondenti erano “come lui”? Sì, alcuni di certo, ma altri no. Gli interessi comuni legano mondi diversi. L’onestà degli intenti abbatte le barriere, anzi cementa vincoli fatti di idee e di sentimenti. Professori universitari, semplici appassionati, specialisti, coltivatori di memorie e conservatori di tradizioni, editori e curatori di collane, segnalatori occasionali, inconsapevoli depositari di segreti, anziane “siunere”, poeti e saggisti... Tutti nelle carte, nei libri, nelle fotografie. Una mappa italiana, europea, mondiale di modi di essere e di vivere, di meditare e di scrivere, di rappresentare e di sperare che l’Italia, l’Europa, il mondo possano cambiare (non si può evitare che cambino), ma senza perdere quelle essenze rare. La biodiversità è anche culturale e non tutto cresce bene nelle serre dei pensieri unici. Dai Paesi Baschi a Malta, dal Canton Ticino alla Lapponia, dalle Ande al Caucaso… Il Tavo era “a casa” dappertutto. Per avere una testa così apolide bisogna avere sotto i piedi radici profondissime e saldissime. Quelle del Tavo erano anche, almeno un po’, ben conficcate nel terreno dei Bussit. Lì c’è una “an-ca da fè” (forse l’ultima?) che Gustavo Buratti ha voluto suo per presidiare un rito più che un mito o un sito. La “casa del fuoco”, l’abitazione che era attrezzata con il focolare (non il camino) per la vita quotidiana e stanziale. Il falò al centro della stanza… In verità la visuale deve essere invertita: non è una casa con un fuoco dentro, bensì un fuoco con una casa intorno. La gerarchia è questa e il Tavo lo sapeva bene. Quelle fiamme erano un cuore, quello dei valìt (ma quanti cuori, in ogni angolo della Terra, battevano e battono ancora così? E tutto il sapere degli uomini non nasce forse da un racconto intorno al fuoco durante una veglia?) e domenica si potrà vedere anche quello. Riunire idealmente, a poche decine di metri di distanza, il cuore e la mente del Tavo è parsa una buona cosa. Perché San Giovanni d’Andorno è di tutti, così come il lascito di Gustavo Buratti.