Attenzione al “uomo nero” di San Giovanni d’Andorno
- primavera 2023
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- di Danilo Craveia
La Voce di San Giovanni, Bollettino di San Giovanni“…il caffettiere è l’uomo nero. Nero tutto quanto: dalla testa ai piedi; nero persino nel grembiale, che nutrì forse un giorno qualche velleità di candore. Ma egli è nero, d’un arrabbiato nero-fumo, anche dentro. Guarda, scruta e fiuta il forestiere con un’aria tra di diffidenza, di astio e di sprezzo. Nell’uomo non ravvisa o non aspetta che il nemico. Egli è lì, piantato sulla sua soglia, in vedetta con le orecchie tese, come a un agguato. Vigila le sue due bacheche dove riposano, da immemorabile età, mescolati in ibridi amplessi, dolciumi, giocattoli, chincaglie e salumi: protegge con una periodica occhiata di sbieco le sue cartoline illustrate infisse nell’arcolaio che gli oziosi fanno girare; e numera a un tempo le zollette di zucchero che l’avventore distratto, lascia sdrucciolar nella tazza”. Su “La Stampa” del 18 settembre 1902 l’allora celebre
(oggi assai meno) Angiolo Silvio Novaro (1) tratteggiava così il gestore del ristorante di San Giovanni d’Andorno.
Ritratto al lapis, a punta spessa, un abbozzo più pirandelliano che verghiano. E non alla D’Annunzio, cui tanto sembrava e, un po’, s’ispirava Novaro. Il 20 settembre l’articolo dello scrittore ligure fu riprodotto, quasi tutto, su “La Tribuna Biellese”, mantenendone il titolo: “Pioggia e sole in montagna”. Il pezzo, una colonna e mezza, è leggibile, a tratti quasi gradevole, ma fin troppo macchiettistico, caricaturale, marcatamente provinciale (l’uomo di mondo che – con piglio da entomologo – disvela con compiaciuta indulgenza la gente semplice e sempliciotta di montagna), nel complesso niente di speciale. Ma se il sito ne esce in formato cartolina, al trattore è riservato un ritratto grottesco.“Interpellato su l’andamento degli affari, risponde con una scossa del capo penzolante, senza neppure voltarsi, come la vittima che non vede ormai che il supplizio verso il quale cammina. E si duole di tutto e di tutti, sputando a stento qualche monosillabo, poiché il tossico gli lega la lingua. Ohimè! Le annate vanno di male in peggio! I signori dell’albergo ora imparano a farsi il caffè in camera, con le macchinette. Voltano e rivoltano, palpano e ripalpano le cartoline fino a insudiciarle, e poi si scordano di quelle che pigliano. Il transito dei fedeli era grande un tempo: adesso, niente. Quei pochi, si assettano ai tavolini come fosse casa loro, sciolgono le loro provviste, mangiano, bevon acqua della fontana, scoton le briciole, e via”. Avido, gretto, scortese… D’accordo il valèt tipo non sarà stato il campione mondiale dell’accoglienza, ma il segno è esageratamente marcato. D’altro canto, lo stesso autore non si face mancare un’altra caricatura, quella del “uomo roseo”, ossia il calzolaio ambulante del santuario. Salutando il caffettiere Angiolo Silvio Novaro annunciava la prossima vittima della sua penna. “…vedo là in fondo il rubicondo faccione del ciabattino... Addio, tristo cerbero! Consuma dentro te con la tua rabbia! Dalle gelide atre bassure del tuo infernal pessimismo, io salgo alle dorate sommità di un ottimismo ideale…”. L’ottimista era, per l’appunto, l’artigiano delle scarpe al quale lo scrittore dedica parole meno grevi, ma non meno ironiche. “Nulla più olimpicamente ottimistico del sorriso che erra senza posa sulle labbra del ciabattino, in mezzo alla maestà della magnifica barba bipartita. Chino sul suo desco, mentre è intento ad agitar con un atletico gesto nell’aria il martello od a fissar sulle suole con un impercettibile corrugar delle ciglia la costellazione delle piccole bullette nuove fiammanti, egli somiglia veramente qualche cosa più di un comune mortale: egli somiglia un piccolo dio. E come tutti gli dei, egli è straordinariamente giocondo. Egli è quasi un vivente inno alla gioia. La beatitudine in lui alberga perenne, e canta col ritmo del martello che picchia infaticato, raggia dal fronte e dalla bocca, sprizza e sfavilla da ogni poro della pelle”. La notte e il dì, il caffettiere e il calzolaio, si susseguono come la pioggia e il sole in montagna. Entrambi convivono a San Giovanni d’Andorno come tra le cime convivono le nubi cariche di gocce e i raggi solari. “Ma il dio non è solo un giocondo: è anche un saggio. Ama, a tempo perso, convertire il suo trono in cattedra di scienza di vita. Smette di succhiare bullette, e lascia cader perle di aforismi. «Tre cose ha il mondo che battute diventan migliori: il corame, la femmina, il rame.» — E io batto! — proclama. E soggiunge che è padre di dodici figli. E sorride...”.
Poteva bastare. Invece, no. Perché se il lucente calzolaio non aveva nulla da eccepire, serafico qual era e, magari, analfabeta, quindi irraggiungibile dalle parole del poeta di Oneglia, al contrario il caffettiere oscuro capì bene, ma bene non la prese. E replicò. Su “La Tribuna Biellese” del 25 settembre comparve la risposta. Acida, piccata, ma senza sudditanza, il che ci rende il replicante simpatico. Le parole dell’oste, Pietro Rosso (e non “nero”…) le riproduciamo così come le lessero a quei tempi.
A questo punto vogliamo farci mancare la controreplica dell’oleoso Novaro? Non si sognò neppure di lasciare l’ultima parola al bifolco che aveva, ci mancherebbe, frainteso, travisato.
Il 2 ottobre 1902 la nostrana “Tribuna Biellese” piazzò in prima pagina la lettera scritta dal Ponente ligure tre giorni prima. Il mittente non si scusava, non sia mai. Se Pietro Rosso era “nero”, dentro e fuori, mica era colpa sua. Neanche fosse stato un fotografo. Il ritratto era originato dal soggetto, non dal ritrattista: vero per vero. E a ben guardare sussisteva un problema di inversione dei ruoli e dei valori.
“Ah, caffettiere impertinente e sconoscente! Così mi rimunera dall’averlo, per lo spazio di ventiquattr’ore, reso celebre a quasi mezza Italia! Poteva, in premio, versarmi non dico molto, ma un gocciolo almeno di quell’aureo nettare ch’egli distilla fasciato nella penombra del suo retrobottega, immerso nel selvoso arsenale delle sue storte e dei suoi lambicchi, riparato alle molestie delle occhiate indagatrici, indiscrete, ed ecco, invece, mi porge a bere con una perfidia nera più dell’ala del corvo, una tazza di fiele così gordianamente nera anch’essa. Ah, caffettiere sconoscente e crudele!”.
Angiolo Silvio Novaro gli aveva fatto pubblicità. Bene o male, purchè se ne parli, no? Chissà in quanti saranno saliti a San Giovanni d’Andorno per osservare da vicino quella sorta di stregone scontroso, ibrido di alchimista e di om salvej? Arcano distillatore di ambrosie limpide e splendenti tanto buone quanto contrastanti col fosco antro nelle quali erano prodotte. Gli affari, per i quali si lamentava (di gamba sana…?) saranno migliorati sensibilmente dopo che “La Stampa” aveva diffuso il mirabile scritto del Novaro! Quindi, in buona sostanza, il trattore era in debito.
E se erano migliorati a lui, dipinto come un orco arcigno e scorbutico, al ciabattino che cosa sarà successo? Il “roseo” avrà avuto clienti in fila dal ponto Concresio!
L'impressione è che l’autore dell’articolo che aveva fatto adirare il ristoratore si era reso conto di avere preteso troppo dalla sua fama e dalla sua penna. Gli era scappata un po’ di presunzione e si era trovato tra i denti non una delle sue olive polpose, ma il pane duro della Bürsch. Senza contare che, ammesso e non concesso che la risposta sia stata davvero di suo pugno, il caffettiere non scriveva tanto peggio di lui. Sentendosi “messo al suo posto”, come si suol dire, Angiolo Silvio Novaro cercò nel suo repertorio una pezza di parole da cucire in bella maniera sul buco.
Gli uscì mezza blandizia e mezza facezia, senza rinunciare a quella superiorità antipatica e a quella compiacenza da flâneur decadente che deve essere piaciuta a San Giovanni d’Andorno come uno sputo in un occhio. Passando al tu, rivolto al Rosso: “tu meriteresti, per ammenda, un assai duro, assai severo, assai nero castigo… E tuttavia non te lo infliggerò... Piuttosto, da idealista e altruista impenitente come sono, io ti gratificherò di un secondo e più allegro e più luminoso dono. Ti prometto fin d’ora per l’altr’anno un altro articolo: un articolo di lode aperta smaccata e spaccata sul tuo elisir, col titolo: L’elisir del Caffettiere di S. Giovanni, ovverossia la bevanda degli dei. Allora, allora finalmente, attraverso le eterne picee brune dell’anima, tu vedrai la prima volta raggiare e sfolgorare il divino almo sole della gioia! Allora, allora veramente cesserai, per un istante almeno nella vita, di essere tutto nero”. Ma che faccia tosta! Ce li immaginiamo i valìt piegati sul giornale a commentare tanta impertinenza? Che cosa ne sapeva lui, l’olivastro Novaro, della gioia del “nero” Rosso e delle abetaie esistenziali dell’oste? E che un forest fosse salito alla balma del Battista della Bürsch per spiegare la vita… Questa poi! Ma lo sapeva con chi aveva a che fare. Molti lettori avranno prospettato omaggi lignei sulle terga dell’articolista nel caso si fosse fatto rivedere in valle, altri formulato presagi di sventura, altri celebrato ad alta voce le qualità morali delle sue famigliari, altri ancora suggerito luoghi insoliti del corpo dell’autore ove riporre il dono annunciato con tanto altruismo.La redazione de “La Tribuna Biellese” si augurava che la querelle finisse così, anche perché la sua posizione intermedia rischiava di diventare parecchio scomoda… E se così finì, come auspicato, fu perché a San Giovanni d’Andorno misero giudizio. Loro. Pietro Rosso e chi con e per lui.
Edmondo De Amicis, che pure aveva estro e inchiostro, che pure conosceva il bel mondo, non si sarebbe mai permesso. Lui che in Alta Valle Cervo era di casa e i valìt, piccoli e grandi, li sapeva, non avrebbe mai pensato e, tanto meno, scritto, qualcosa del genere.
Adesso la contesa continua nell’aldilà? Macché, i due saranno diventati amici e sorrideranno sorseggiando caffè celestiali, mentre il “roseo” ciabattino ribatte le suole delle pantofole degli angeli.
Tuttavia… Per amor di verità ci corre l’obbligo di segnalare che il promesso articolo sulla bevanda degli dei, l’anno seguente non fu scritto. O non fu editato, che è un po’ la stessa cosa. Forse non l’abbiamo trovato e, in questo caso, chiediamo venia. Ma se, come pare, la promessa non fu mantenuta, ovunque si trovi, l’Angiolo che ora è un angelo, provveda e rimedi. Saremo ben lieti di pubblicarlo tra queste pagine, no?
(1) Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina, 12 novembre 1866 – Oneglia, 10 marzo 1938) è stato un poeta, scrittore, traduttore e imprenditore italiano. Con la famiglia si trasferì presto a Oneglia, per prendere posto nella ditta olearia di famiglia P. Sasso e Figli, di proprietà della madre Paolina Sasso. È stato traduttore di due fortunati libri, L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e La vita di Gesù di François Mauriac, e autore di libri di lettura per le scuole elementari.
Nominato Accademico d'Italia nel 1929, rimase fortemente deluso dal fascismo.