Addio!... (San Giovanni d’Andorno): i bei versi “senza fede” di Luigi Tadini

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Data cronica
giugno 2023
Da “La Tribuna Biellese” il 25 agosto 1904.
Da “La Tribuna Biellese” il 25 agosto 1904.

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di Danilo Craveia
La Voce di San Giovanni, Bollettino di San Giovanni


Ai clericali Luigi Tadini (1) non piaceva. Poeta dilettante, certo, e non senza talento, ma decadente, materialista, nichilista, financo ateo… Nel 1899 lo attaccarono con polemica veemenza dalle colonne di “Biella Cattolica” e non per questioni di metro o di stile. Alcuni suoi versi, pubblicati dal giornale dei liberali/massoni non erano andati giù ai cattolici. Era il tempo dell’anno che si dedica ai cimiteri e il Tadini aveva detto la sua, e in quei sonetti “si leggon queste espressioni rimate: «…Invano o prece vai del pio credente al mesto loco, che in sue mura serra tanta d’affetti e di ricordi ardenti fiamma che l’alma dei gentili afferra; invano: il nulla regna onnipossente». E quest’altre: «...Non prece alcuna con li effluvii alati, nè rimembranza va per vie segrete agli scomparsi tanto lacrimati: speme non resta oltre la tomba muta». Il signor Tadini, ci sembra, potrebbe riuscire a darci qualche cosa di meglio. Perchè, a parte il resto, gli par molto bello, a Iui, uscir a dire, il dì dei morti, ai pii visitatori del camposanto: «O sciocchi che siete tutti, perchè pregate? Perchè gemete sui sepolcri? È tutto invano: vano è la prece; regna il nulla: speme non resta oltre la tomba...?». A noi pare che chi non ha la fede, dovrebbe per lo meno non menarne vanto a offesa delle anime gentili".
Il libraio Luigi Tadini non si convertì. Rimase quel che era, anche se non mancò di trattare alla sua maniera, e non senza delicatezza e sensibilità, i temi della fede della quale, a detta dei suoi detrattori credenti, era privo. Forse. Certo, poetare su Garibaldi e sul XX Settembre non aiutava a farsi voler bene dalla Curia, ma “Icone alpestre” (giugno 1903) celebrava la Madonna d’Oropa come pochi altri hanno saputo fare.

E scrisse anche di San Giovanni d’Andorno. No, nulla di religioso, ma la composizione, pubblicata su “La Tribuna Biellese” il 25 agosto 1904, merita di essere (ri)letta e commentata. L’ispirazione venne all’autore in loco, in quel mese. Tadini deve aver trascorso un po’ di tempo quassù e vide e visse ambiti e situazioni che lo indussero a creare una graziosa poesia.

Si tratta di un componimento semplice, almeno in apparenza, un po’ da cartolina illustrata, un po’ oleografico, ma con qualche spunto che vale la pena di parafrasare.
Il tema di fondo è duplice: il distacco, ossia l’addio, e quindi la distanza da un luogo (reale o simbolico) caro al cuore del poeta, e la giovinezza, “stato soave” leopardiano. In più si nota la convinzione che la vita in montagna fosse più salubre, in senso fisico, ma non solo, rispetto a quella di città o di pianura in genere.

Tadini descrive una fugace visione, la ricorda avvenuta in un pomeriggio d’estate (di quella estate), in un posto non identificato, ma con tutta evidenza dalle parti di San Giovanni d’Andorno. Una ragazzina dalla chioma folta e ricciuta gli appare e gli rivolge un sorriso. Il sovvenire di quel particolare istante produce un’analessi narrativa: il poeta stava percorrendo, in salita, un sentiero solitario sotto l’ombra della faggeta diretto al “delubro” che possiamo riconoscere come il santuario di San Giovanni d’Andorno.
Quale fosse quel sentiero non è dato a sapersi. Il viottolo del Sacro Monte? Il prosieguo della poesia non lo conferma, anzi sembra indicare un altro tragitto, forse in vicinanza di una delle borgate dei dintorni (Santa Maria di Pediclosso, Prazzano…). La passeggiata si svolge sotto un cielo terso, ma al riparo delle fronde dei faggi. Altrove il sole riardeva i campi, ma in quel contesto la frescura rendeva il percorso gradevole e solo un cuculo faceva udire il suo verso. Condizione ideale per pensare, con la mente sgombra dagli affanni, “su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure”, avrebbe detto Foscolo, cioè le preoccupazioni del mondo. Azzeccato l’aggettivo “superbo” che qualifica il pensiero: in certe situazioni si ha la convinzione, atto di superbia intellettuale, di poter spaziare con la mente, ovvero di capire tutto.

Ed ecco, all’improvviso, un casolare alpestre. Si potrebbe rendere con il sinonimo baita, ma non era un rifugio per pastori quello che si svela al poeta, bensì una dimora, la casa abitata stabilmente da una famiglia di valìt. C’è una finestra aperta e in quella cornice si presenta la fanciulla, fresca e ricciutella.
È un’immagine di gaiezza e di sincerità immediata, ossia non mediata da convezioni e preconcetti, né dall’esercizio affettato delle buone maniere che si potrebbero incontrare in altri contesti. La ragazzina ride e saluta come se il nuovo venuto fosse un amico di vecchia data riapparso dopo tanto tempo. Il davanzale fiorito con semplici vasi rende quel momento ancora più colorato e vivido.
Ma l’allegria della piccola valëtta, che avrebbe potuto trovare posto in uno scritto di De Amicis, suscita a Luigi Tadini una riflessione accompagnata al commiato dalla giovinetta che incarnava la gioventù in generale. L’addio del titolo è rivolto ai bambini (ma è anche indirizzato alla gioventù che l’autore ha perduto), che hanno la gioia per sorella. Il loro cuore, specialmente quello dei bimbi dell’alpe dove fiorisce il rododendro selvatico, batte nella pace e non sperimenta l’angoscia e il dolore della vita vissuta in luoghi e tempi diversi. Sì, perché in montagna, come a San Giovanni d’Andorno, il cielo è più azzurro e l’esistenza è più bella, sicura e spensierata. Il gelo poteva mordere, ma non tanto da rendere odioso o davvero pericoloso il vivere quassù (in questo l’autore edulcorava un po’ la realtà: in Alta Valle Cervo quando faceva freddo… faceva freddo, e l’inverno poteva far paura). 

E poi, anche se la vita in montagna riusciva a essere dura, non valeva forse la pena di resistere per vedere le nuvole al tramonto, più luminose che mai, ornare di porpora le vette?

Il poeta ricambiava il saluto ricevuto. Voleva porre un bacio sulla fronte di quella bimbetta, fronte serena dietro cui s’intuiva una mente sveglia.

Dopo l’addio, il ricordo si sedimenterà per rimanere per sempre. La bionda figlia dell’alpe, amore alpino dal sangue puro e vitale, simbolo della salute fisica, morale e spirituale che la montagna offre, avrebbe vissuto nel cuore ispirato di chi aveva rimato l’esperienza di quell’incontro.

Luigi Tadini non era né Foscolo, né Leopardi. E non credeva. O, forse, credeva a modo suo. Però sapeva scrivere e mettere in versi impressioni nitide e concetti profondi. A San Giovanni d’Andorno va chi prega e chi non prega, chi si affida convinto che ci sia un “dopo” e chi ritiene che quel “dopo” non ci sia, ma solo il regno del nulla. Ma per tutti è un luogo di pace e di serenità, anche se quelle figlie dell’alpe dai riccioli d’oro non esistono più.

 

(1) LUIGI TADINI (Biella, 1867 - ivi, 1910)

Sulla prima pagina de "Il Popolo Biellese" del 26 febbraio 1931, si legge "parlando di librai biellesi, gli anziani studiosi ricorderanno Luigi Tadini, cittadino coltissimo e poeta delicato, che all’arte del libraio aveva dedicato con competenza rara e con vera passione tutta la sua purtroppo breve esistenza". Il necrologio apparso su "La Tribuna Biellese" del 20 novembre 1910 salutava il "poeta libraio" morto nel fiore degli anni di un "male insidioso ed inesorabile" Luigi Tadini "aveva un cuore semplice, un carattere franco, un’intelligenza agile ed aperta, una grande cultura: era un’anima rara che non si poteva avvicinare senza essere presi da una viva simpatia che si sprigionava dal complesso armonico di tante virtù [...]. Temperamento ardente ed irrequieto, insofferente di gioghi uscì presto dalla famiglia e, giovanissimo, dovette guadagnarsi il pane per vivere. Lavorò con ardore, vivendo modestamente, e intanto si diede agli studi letterarii, pei quali aveva una spiccata e naturale tendenza. Fa ardente repubblicano, ed al suo ideale politico sciolse più volte inni alati che rivelarono il suo non comune ingegno. Più tardi la sua musa, che era stata gioconda come la sua breve gioventù, incominciò ad intristire: nei suoi versi in cui sprigionava in strofe sicure, canti della sua anima, incominciò a serpeggiare il dubbio e lo sconforto [...]. Qualche anno fa le sue poesie furono «accolte in un volume intitolato «Fiori Selvaggi» che ebbe molta fortuna. Era ammiratore sconfinato di Giosuè Carducci, dal quale ebbe personalmente incoraggiamenti e plauso: e ciò basterebbe per dire quale fine tempra di artista egli fosse". Nel 1905 aveva pubblicato anche un'altra raccolta (come la prima stampata dalla tipografia Giuseppe Testa di Biella) dal titolo significativo: "Ultime foglie".

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