L'incendio del 1845 di Piedicavallo: fiamme fino a... Roma [Eco di Biella, 27 novembre 2023]
- 27 novembre 2023
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
L'incendio del 1845 di Piedicavallo: fiamme fino a... Roma
Una scintilla fortuita e il vento secco all’origine del disastro
La macchina dei soccorsi attivata dal parroco don Catella
Carlo Alberto nomina una commissione per la ricostruzione
Nel 1845, Piedicavallo contava poco meno di 800 abitanti (circa 600 risiedevano a Montesinaro, 1200 a Rosazza, comune autonomo dal 1906). Nell’incendio del 5 gennaio 1845, un quinto dei piedicavallesi perse la casa. Nessuno perse la vita, anche per atti di coraggio, come quello di Giovanni Giavina Viola che la rivista torinese “Letture di famiglia” riportò nel numero del 15 marzo 1845. “S'intese fra il rumore un grido che partiva di mezzo a quelle rovine, ma un generoso slanciavasi fra le fiamme, e poco stante tornava con una giovinetta fra le braccia. Egli era uno scarpellino pur di Piedicavallo, un certo Gio. Giavina Viola, che con evidente pericolo della sua salvava la vita alla figlia di Giulio Ion”. La stampa dell’Ottocento era particolarmente attenta a gesti intrepidi che, opportunamente narrati, restituivano, oltre che situazioni impressionanti, scenari emulativi di elevazione morale. Un salvataggio spettacolare si “vende” bene anche oggi sul mercato della comunicazione, ma è il resto a interessare di meno, e il tutto si degrada assai più rapidamente in un contesto dove regnano gli stimoli emotivi superficiali in rapida successione. In altri tempi, certi eventi restavano nella memoria collettiva ed educativa per generazioni.
Giovedì 20 marzo 1845, il foglio capitolino “Diario di Roma-Notizie del giorno” pubblicò un lungo articolo sul “terribil fatto”, ossia l’incendio, avvenuto in quel di Piedicavallo nella serata del 5 gennaio 1845. I lettori della Città Eterna, per quanto edotti da un’opportuna didascalia che diceva che Piedicavallo si trovava della “Valle di Adorno” [sic], nella Provincia di Biella, dovevano essere per lo più ignari di dove fosse quel posto. Tuttavia, le parole di quelle tre colonne non potevano non muovere alla compassione verso i disastrati della Bürsch. Il “terribil fatto”, di per sé memorabile, offre qualche spunto di riflessione ad ampio spettro sui mezzi e sui modi della comunicazione, e sulla loro evoluzione in questi (quasi) due secoli. Tanto per cominciare, c’è il tema dei tempi, ovvero della tempestività delle informazioni che, allora, poteva concretizzarsi fino a un certo punto. La notizia della sciagura di Piedicavallo arrivava a Roma quasi quattro mesi dopo, ma in quel contesto, quella che oggigiorno si giudicherebbe un’inconcepibile lentezza, allora era la normalità. Il che significa che si può sopravvivere a velocità di comunicazione ben minori di quelle odierne. La redazione romana, tra l’altro, non si era certo scomodata a spedire un inviato in Alta Valle Cervo per “coprire” la notizia in loco. Aveva, invece, semplicemente “ripostato” l’articolo apparso sulla torinese “Gazzetta Piemontese” dell’8 marzo 1845, senza cambiare una virgola (siglandolo “G. P.”, per segnalare la fonte). L’autore del pezzo era l’abate Gustavo Avogadro di Valdengo (1814-1847), uomo di lettere, oltre che di Chiesa, che aveva già dato alle stampe alcuni volumi di rilievo (tra cui una storia della Sacra di San Michele nel 1837) e che avrebbe scritto un libro sul Santuario di Oropa (1846) e uno sui pittori Galliari (1847). Ecco un saggio del suo periodare che introduce a quell’evento non doloso: “fatal scintilla per isgraziato accidente appiccatasi ad una casa, e dal rovajo [vento di tramontana, n.d.a.] che spirava fortissimo in quella notte funesta dalle gole del Mologna nello stretto della Valle, agitata e sparsa con incredibile rapidità all'intorno, ha in brev’ora tutto quasi consunto quell'alpestre paesetto e ridottolo in un mucchio di cenere e di rovine. Maggior parte di que’ poveri casolari era preda della fiamma devastatrice, e ben trenta famiglie, perduto ogni avere e sin lo scarso prodotto de’ lor sudori, riduceva ogni cosa allo stremo. Oh Dio! Qual dolente scena! Vecchi infermi, bamboli lattanti, uomini, donne nel cuor di rigido verno, privi d'ogni ricovero, d'ogni sostanza, ridotti dal terribile incendio a mendicare un asilo, alla pubblica carità un tozzo di pane! Ieri fra que’ buoni alpigiani tranquillo vivere e domestica pace: oggi angoscia e desolazione la più cruda”. Certo, la cronaca attuale appare più affilata e diretta, ma il divario è più lessicale che ritmico. Le pennellate dell’abate sono di buona mano e in poche righe si legge tutto ciò che serve a cogliere l’avvenimento, le sue cause, le sue conseguenze e il contesto di riferimento. “G.A.V.”, così si firmò, sarebbe stato un valido giornalista. Ma il pezzo redatto per la “Gazzetta Piemontese”, poi ripubblicato a Roma, non si limita alla nitida esposizione dei fatti. Anzi, proprio quella nitida esposizione pone i fatti nella luce giusta per essere illuminati da ciò che avvenne a seguito delle fiamme distruttrici. L’abate Gustavo Avogadro di Valdengo era stato chiamato nella commissione voluta da Carlo Alberto per contribuire alla ricostruzione del villaggio. “La pubblica carità sorda non era a tanta sciagura: chè, al primo tocco della campana a stormo, accorrean d'ogni parte della Valle laboriose braccia ad impedire maggiori danni al fuoco, provvedean soccorso a’ desolati confratelli. Gareggiaron di zelo, di coraggio e di avvedutezza le Podestà amministrative, onde agli effetti di tal catastrofe non andassero associate quelle calamità che ne sono spesso inseparabili”. Non ci furono vittime, solo tanti feriti più o meno gravi, ma il danno materiale fu ingente (periziato in almeno centomila lire) e l’intervento dei valìt per aiutare i loro conterranei fu immediato, disinteressato e spontaneo, ma quell’aiuto poteva affrontare l’emergenza, non strutturare un ritorno alla vita di una comunità mortalmente ferita. L’autore, allora, celebrò come il più alto degli esempi edificanti quella “avvedutezza” delle “Podestà amministrative”, come a dire il Governo che, per mano della commissione di cui lui stesso faceva parte, aveva portato lo Stato dove bisognava. E lo Stato aveva agito. In questo momento storico in cui lo Stato riesce solo a deludere le aspettative dei cittadini (che, però, sono essi stessi lo Stato e di meglio, in generale, non meritano), l’azione voluta dal re sembra il lieto fine di una favola. Non è noto come e quanto quell’intervento sia stato davvero risolutivo, ma per l’abate giornalista (penna di parte, ci mancherebbe) si trattò di un’iniziativa provvidenziale. Dietro istanza di don Agostino Catella, prevosto di Piedicavallo in quel frangente, “per dispaccio della Regia Segreteria dell'Interno, dall'ottimo nostro Re, cui nulla sfugge al maggior bene de’ sudditi suoi, [fu] creata apposita Commissione di beneficenza, alla quale si affidava l'incarico d'invitare ed eccitare in ogni miglior maniera ne’ Regi Stati questa pubblica carità in ajuto di quelle vittime infelici”. A presiedere detta commissione fu nominato il marchese Carlo Emanuele Ferrero della Marmora, principe di Masserano. Commissari: i cavalieri commendatore Giovanni Battista Cossato, Maurizio Gromo Losa di Ternengo, Carlo Bernardo Mosca, ispettore del Genio civile, l’avv. Giuseppe Vincenzo Sella, il fisico Alessandro Sella, il conte Raimondo Avogadro di Valdengo, l’avv. Giacomo Piacenza, tesoriere, l’avv. Fagnola, segretario, e il suddetto abate. Uno schieramento di tutto rispetto. Difficile credere che tutti o anche solo qualcuno, vista l’origine della nomina, abbia preso sottogamba l’incarico. C’è da credere che si siano dati da fare sul serio per “ottenere abbondanti somme di danaro in pro’ de’ poveri incendiati di Piedicavallo, onde sovvenire alla meglio all'infelicità della triste condizione in cui si trovano, provveder loro un’altra volta tetto, casa, il necessario alla povera loro vita, e togliendoli così ad un avvenire misero ed abbietto, restituire tanti utili individui alla società”. Sarebbe stato meglio prevenire, facendo attenzione ai fuochi dei camini in quelle serate secche e ventose come sono, ancora oggi, in inverno sulle montagne biellesi quando non nevica, ma a volte non si può che curare e così fu fatto, a quanto pare. A don Catella (1802-1875), nativo di Veglio, l’abate Avogadro di Valdengo riconobbe il merito di aver acceso il fuoco buono della solidarietà. Il prevosto scrisse una lettera aperta al clero della Diocesi di Biella, ai suoi colleghi parroci, al vescovo Monsignor Losana (che invitò alla generosità nella sua circolare del 21 febbraio 1845). La missiva data al 23 gennaio 1845 (grazie ad Alfonso Oitana per averla rintracciata), ad allarme cessato, quando, paradossalmente, iniziava il periodo più difficile, quello del venir meno della forza emotiva di chi può soccorrere. L’esperienza, anche recente, insegna che è dall’oblio che nasce la disattenzione e, in ultimo, l’indifferenza. Occorreva tener desta l’attenzione. Trentuno case distrutte, altrettante famiglie (177 persone) letteralmente sul lastrico. Il 9 gennaio un altro incendio aveva incenerito altre due abitazioni. Non si poteva vivere senza accendere il focolare in quella stagione rigida. Si posò la coltre bianca sulle macerie annerite: lugubre contrasto. Quando l’Intendente della Provincia di Biella, cavalier Giriodi, “non curando disagi”, risalì il Cervo fin quasi alla fonte per sincerarsi dei danni, era caduta “gran copia di nevi”. Poteva essere il sudario sul paese intero. Invece, i valìt non si persero d’animo. Con o senza i soldi raccolti dalla commissione regia, riedificarono le loro dimore, come prima, meglio di prima. Abilità e tenacia non difettavano. Gli incendi erano un rischio costante, incombente in quel modo di vivere senza scelte (il 2 dicembre 1854 fu Montesinaro a patire la stessa sorte: quaranta persone senza più casa). Non ci sono notizie in merito, ma è probabile che, se uno dei lettori romani si fosse messo in viaggio nell’estate di quello stesso 1845, avrebbe trovato a Piedicavallo molti edifici nuovi e poche tracce del “terribil fatto”.