Passare le acque nel Biellese. Storia e storie di idroterapia tra Otto e Novecento
- gennaio 2015
Contenuto
- La Voce di San Giovanni, Bollettino di San Giovanni, gennaio 2015
Il DocBi-Centro Studi Biellesi ha recentemente pubblicato il libro Passare le acque nel Biellese. Storia e storie di idroterapia tra Otto e Novecento curato da Danilo Craveia, Anna Bosazza ed Emanuela Romano; il volume è arricchito da un notevole apparato iconografico storico (principalmente derivante dai fondi fotografici della Biblioteca Civica di Biella e della Fondazione Sella) e dalle immagini odierne, scattate dalla fotografia Elisa Pozzo.La pubblicazione è l’esito delle ricerche che hanno portato, con il sostegno della Fondazione Opera Pia Laicale del Santuario di San Giovanni d’Andorno, della Casa Museo della Valle Cervo e dei comuni della Bürsch, poco meno di un anno fa, all’organizzazione di una serata-conferenza al Santuario di San Giovanni. Il DocBi, che non persegue fini di lucro, e gli autori hanno quindi stabilito di destinare i proventi della vendita del volume (disponibile presso il DocBi in via Marconi a Biella, le librerie biellesi, il Santuario di San Giovanni e la Pro-loco di Campiglia) al Santuario di San Giovanni d’Andorno. Per questo la Fondazione Opera Pia Laicale ringrazia gli autori e il DocBi sperando che i valligiani vogliano sostenere il nostro Santuario anche attraverso questa iniziativa.
Fondazione OPL Santuario di San Giovanni d’Andorno
Che cos’è e che cosa ha rappresentato l’idroterapia nel Biellese tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento? Il tentativo di rispondere a questa domanda trova esito fra le pagine del volume.
Per dare qui solo una risposta sintetica potremmo dire che l’idroterapia fu la scoperta dell’acqua… fredda! Il dottor Giuseppe Guelpa, di ritorno da Gräfenberg, in Slesia, dove si era recato per tentare di porre rimedio alla sua precaria situazione di salute, portò con sé gli insegnamenti ricevuti da Vincent Priessnitz e, antesignano in Italia, impiantò in Valle Oropa, il primo Stabilimento idroterapico.
Il principio su cui si basava la cura erano i bagni gelati, un’alimentazione sana e contenuta e l’attività fisica. A questo si aggiunsero nel tempo, non solo ad Oropa, ma in tutti gli stabilimenti biellesi, altri tipi di terapia, dei quali nel libro viene dato conto (in particolare nel glossario).
Il Biellese nel giro di pochi anni divenne idroterapico a tutti gli effetti, tanto che nelle guide turistiche di quell’epoca, che, in funzione della richiesta turistica, vedevano la stampa numerose, erano contenuti ricchi riferimenti alle possibilità di cura e di ospitalità offerte dai Bagni. Il turismo nel Biellese era allora una realtà consolidata e molto redditizia.
E in Valle del Cervo? E’ ben noto che Andorno ebbe in quel periodo il suo momento più fulgido dal punto di vista turistico, ma quello che desidereremmo evidenziare qui è il legame fra l’idroterapia e l’alta valle.
Quello dei bagni era divenuto a tal punto un business redditizio che gli stabilimenti divennero numerosi (fino ad un massimo di dieci intorno al 1900) o almeno veniva offerta all’interno delle strutture ricettive turistiche già esistenti o in procinto di nascere, la possibilità di accedere alle cure (è il caso per esempio della Villa Excelsior di Biella).
Anche nella Bürsch ci furono progetti in tal senso.
Nel maggio 1899 fu pubblicato su Eco dell’Industria che vi era l’intenzione di impiantare un nuovo stabilimento idroterapico nel pressi del Santuario di San Giovanni d’Andorno. I giornali di ispirazione cattolica riportavano remore di carattere morale: si temeva, infatti, “che la vicinanza di tali case di svago faccia perdere a quel Luogo Pio un poco ancora di quel po' di indole divota che aveva, rendendolo quasi succursale di quello". Qualcuno sollevò anche un problema di campanile: in effetti, "saranno capitali stranieri quelli che porteranno ivi un nuovo saggio di industria essenzialmente biellese"[1]. Ma su quest'ultimo aspetto arrivarono a mezzo stampa puntuali smentite. Si volle in questo senso chiarire che era "per iniziativa di alcuni intraprendenti valligiani" che si stava formando "una Società per la costruzione e l'esercizio di un nuovo grandioso stabilimento idroterapico, che sorgerà in Campiglia o in Quittengo, e presenterà tutte le comodità ed i perfezionamenti che l'igiene, l'esperienza e l'arte possono suggerire". D'altronde vi era "acqua abbondante e purissima; la località è deliziosa, e si può essere sicuri che l'impresa avrà ottimo successo"[2].
Come è facile intuire, malgrado tanta sbandierata sicurezza, alla fine se ne fece nulla. Ma l'idroterapia, quella nuda e cruda dei bagni in acqua fredda senza tante cerimonie, era comunque arrivata in valle. Si trattava di una specie di "percorso" idroterapico en plein air, ossia senza stabilimento. Si ha infatti notizia, attraverso la corrispondenza del periodo 1873-1886 scambiata tra Battista Jon Tonel, emigrante Oltreoceano, e la sua famiglia rimasta a Piedicavallo di immersioni terapeutiche (presumibilmente nelle acque del Cervo o di qualche suo affluente) da praticarsi a Campiglia Cervo o nei suoi dintorni[3]. Il carteggio, gentilmente concesso in consultazione dalla dottoressa Laura Schiapparelli e trascritto da Rosaria Oddone, si è rivelato una fonte più che preziosa e in grado di aprire uno scenario inedito e foriero di sviluppi d'indagine del tutto imprevisti. La moglie di Battista, Caterina, nella tarda primavera e nell'estate del 1885 soffriva di un non meglio specificato "male" che la rendeva carente di sangue. Per riattivare la circolazione, alla fine di giugno le furono prescritti bagni per un ciclo di dodici o quattordici giorni. Fu uno dei medici della vallata, il dottor Gaia, a indicarle quella cura drastica e impegnativa ("sono bagni d'acqua come fosse gelata, ne prendevo uno alle cinque di mattina e l'altro allo ore dieci e poi venivo a casa" scriveva al marito la malata il 3 agosto) che però non ebbe, o almeno non subito, gli esiti sperati, tanto che il padre della donna aveva deciso di impedire alla figlia di proseguire, perché temeva che le fossero addirittura dannosi. Indipendentemente da come andarono a finire le cose per la povera Caterina, è interessante in questa sede evidenziare come a Campiglia ci fosse qualcuno che puntava sull'idroterapia, sebbene un po' meno raffinata di quella originaria del Guelpa o di quella degli stabilimenti in auge in quegli anni. La figura da identificare è quella del Gaia, il medico che suggerì alla donna delle lettere di curarsi con l'acqua. Ricorrendo agli elenchi dei medici praticanti in valle e alle genealogie elaborate e pubblicate da Remo Valz Blin si scopre che con quel cognome, in quei tempi o quasi, nella zona c'erano due dottori Gaia in attività. Ciò detto, è possibile, ma molto poco probabile per ragioni anagrafiche, che l'idroterapeuta fosse Pietro fu Costantino Gaia Genessa (1865-1937). Laureatosi a Torino e accumulata una certa esperienza diagnostica, anche presso il Santuario di Oropa, il dottore campigliese tornò in valle a esercitare a lungo la professione. Il fatto è che nel 1885 aveva solo vent'anni e, pur considerandolo precoce negli studi, è assai difficile che si tratti di lui. E' molto più plausibile considerare un altro uomo, un altro medico: Celestino Gaia.
Questo valit degno dei suoi avi e della sua terra, merita una menzione particolare. Nato a Campiglia Cervo nel 1846, si laureò a Torino il 29 luglio del 1872[4] e nel 1891 fu il grande protagonista della rinascita di uno stabilimento idroterapico… Purtroppo, però, quella stazione balneare non si trovava nel Biellese bensì in Valle d’Aosta, a Saint-Vincent. Si tratta quindi di un "cervello in fuga", ma è inverosimile che il suo interesse per l'idroterapia sia nato improvvisamente mentre si recava per caso en Vallée.
Su "La Stampa" del 27 maggio 1891 si legge: "quest'anno sarà riaperto lo Stabilimento idroterapico, rimasto chiuso l'anno scorso. Ne ha acquistata la proprietà il dott. Celestino Gaia, il quale sta ultimando le migliorie necessarie alla soddisfazione dei bagnanti. Speriamo bene...". Si stava parlando di Saint-Vincent, dove l'attività terapeutica e quella turistica ad essa collegata aveva subito un sensibile declino, ecco spiegato il riferimento alla speranza del corrispondente. Il campigliese si integrò perfettamente nel contesto valdostano e si era guadagnato la stima degli abitanti della zona, tanto che "La Stampa" del 26 giugno 1897 riportò la notizia secondo cui il medico chirurgo dott. Celestino Gaia aveva attestato, insieme ai suoi più autorevoli colleghi del mandamento di Châtillon, che lo stato sanitario della zona era eccellente, ovvero non si dovevano registrare casi di una tanto paventata epidemia di difterite. Ancora da "La Stampa" del 23 aprile 1898 si apprende che il dottor Gaia, proprietario dello stabilimento idroterapico, era stato nominato medico condotto di Châtillon. Lo stesso giornale pubblicò l'annuncio della morte avvenuta nel paese natale il 6 novembre 1900[5].
Intanto però il via vai di turisti che affollava la Valle del Cervo generava considerazioni circa l’adeguata accoglienza e i costi e profitti derivanti da quest’ultima. Dagli epistolari di celebri bagnanti, come per esempio Carlo Tenca, si ricava che spesso essi, non trovando alloggio presso i Bagni, si sistemassero più o meno provvisoriamente nelle camere messe a disposizione dalla popolazione residente. Il Risveglio del giugno 1907 lamenta l’impossibilità per le strutture ricettive di operare un adeguato rimodernamento dei propri stabili e questo perché gli albergatori, subendo la concorrenza dell’offerta delle strutture cittadine e dei privati affittacamere, “hanno profitti limitati” e dunque solo le “grandi Società di alberghi quali ora sorgono possono ora provvedere alle complesse esigenze dell’oggi”. Le società in questione, congiuntamente al Club Alpino Italiano avrebbero dovuto provvedere secondo l’articolista, anche a migliorie stradali, mezzi di locomozione e linee telefoniche. Viene in questo contesto anche conto del fatto che l’Amministrazione del Santuario di San Giovanni stesse apportando migliorie all’Ospizio “a cui accorre volentieri il forestiere di ogni classe”. Viene notato che anche la strada che dal ponte Concresio conduce a San Giovanni prima ed Oropa poi necessita di manutenzione e migliorie, e “chi si mettesse in mezzo per trattare questa bisogna col signor Erede del Senatore Rosazza, farebbe opera assai commendevole. Ecco un bel tema per la prossima stagione estiva”.
Come per tutta la grande tematica dell’idroterapia biellese, l’esperienza della vallata del Cervo è ancora per molti versi da indagare. Il volume da cui sono state tratte queste poche notizie è accurato e corposo, ma di certo non esaustivo. Soprattutto l’attività del medico Gaia e l’annunciata possibilità di veder avviato uno stabilimento idroterapico nella Bürsch, considerato quanto il progetto potesse essere “in fase avanzata” (tanto da essere individuati anche degli investitori forestieri), meriteranno un’ulteriore indagine mirata. E, perché no, una riproposizione in chiave attuale di un’attrattiva salutistico-turistica che altrove ha già dimostrato di non essere affatto dimenticata e superata.[1] L'Eco dell'Industria, 4 maggio 1899.
[2] L'Eco dell'Industria, 19 novembre 1899.
[3] Le lettere non specificano con precisione il luogo in cui dovevano avvenire le "cure". Forse lo si potrebbe individuare in un sito "in territorio di Campiglia, fra il ponte detto delle tre fontane e l'Ospizio di San Giovanni" come indicato in un trafiletto apparso su "L'Eco dell'Industria" del 4 maggio 1899 in relazione alle notizie della ipotetica apertura dello stabilimento idroterapico in valle. Per quanto riguarda i coniugi Jon Tonel, riposano uno accanto all'altra nel cimitero di Andorno Micca.
[4] "Quadro degli esercenti l'arte salutare nel Circondario" redatto dalla Sotto-Prefettura del Circondario di Biella nel 1882 (Archivio Storico del Comune di Andorno Micca).
[5] Il dottor Celestino Gaia è citato due volte da Remo Valz Blin nel suo volume sull'Alta Valle d'Andorno. La data di morte indicata nel libro (1898) è però errata. Inoltre la formulazione della brevissima nota biografica dedicata al medico induce a credere che la sua vita professionale si sia consumata tutta o quasi in Valle d'Aosta, mentre invece ci rimase solo negli ultimi dieci anni prima di morire.