I valdesi di Biella: il duro inizio in città. Meglio a Piedicavallo [Eco di Biella, 25 maggio 2013]
- 25 maggio 2013
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
- I valdesi di Biella: il duro inizio in città. Meglio a Piedicavallo
La buonanima del Tavo, che questa storia la conosceva bene, forse gradirà il pro memoria. I valdesi e i protestanti in generale nel Biellese e, soprattutto, a Biella non ebbero vita facile. Sul finire dell’Ottocento quando la presenza valdese si fece più consistente, convincente e, di conseguenza, “ingombrante” fu inevitabile che gli ambienti cattolici dell’epoca reagissero andando all’attacco. Al contrario i liberali cittadini si mostrarono più aperti nei confronti della novità rappresentata dalla libera predicazione protestante, ma è da credere che l’apertura degli ambienti che avevano voce sulla “Tribuna Biellese” non fosse sempre sincera e profonda, ma ben calibrata sull’opportunità di sostenere un’alternativa o una minaccia, per quanto debole, ai “papisti”. Lo stesso dicasi, con premesse e sfumature diverse, per mazziniani e socialisti. Il 17 gennaio 1848 Carlo Alberto aveva firmato il decreto che riconosceva ai valdesi i diritti civili e politici. Da quel momento, nel Regno di Sardegna e poi nel neonato Regno d’Italia il culto evangelico fu tollerato, ma non ovunque e non sempre con lo stesso rispetto, anche perché quella cattolica romana restava pur sempre la chiesa ufficiale. Le nuove condizioni favorevoli rese possibili dall’editto albertino avevano indotto i colportori e i pastori valdesi a cercare di fare proseliti e di radicarsi nelle comunità piccole e grandi. Più o meno tutti sanno che Piedicavallo testimonia una lunga e significativa storia protestante Nel 1888 arrivò da Torre Pellice, la capitale valdese, la maestra elementare Elisa Goss. Sette anni dopo, il 13 ottobre 1895, fu consacrato il tempio (tuttora attivo) per le funzioni del nutrito gruppo di piedicavallesi e valligiani convertiti o simpatizzanti. Nell’agile scritto “Le pietre della libertà” (Bazzini, Bernardini, Burat, Revelli, edito a Biella nel 2005) si tramanda quella vicenda, ma poco si dice di quanto in quegli stessi giorni stava avvenendo a Biella. Nell’ottobre del 1894 i protestanti avevano “aperto nella nostra città una loro conferenza”, avvisava “Biella Cattolica” mettendo in guardia dai pericoli che tale iniziativa poteva cagionare. “Certi cristianelli” si erano già avvicinati e il bisettimanale della Curia si premurava di avvertire soprattutto i genitori per i loro figli, come se si trattasse di un turpe e virulento contagio morale. L’evolversi della situazione e l’atteggiamento conservatore dei cattolici (al corrente da tempo della “infiltrazione” protestante, ma che preferivano chiudere gli occhi contando sul low profile degli stessi valdesi, evangelici, metodisti, pentecostali o di qualsiasi altra “deviazione dalla retta via”), si possono leggere nitidamente sulle colonne dello stesso foglio cattolico: “Eh, di sicuro che si sapeva che essi ci sono già qui da qualche anno; se ora di nuovo si alza la voce, è perché hanno aperto bottega in luogo più pericoloso, e l’annunziano in pubblico, mentre finora si contennero come un club quasi clandestino”. Vizi privati pubblica virtù, verrebbe da dire, e alla fin fine ai credenti salottieri di allora premeva di più la forma del quieto vivere che la sostanza di un confronto ecumenico. Era già grave che don Perino, parroco di Piedicavallo, dovesse convivere e misurarsi tutti i giorni col protestantesimo nell’alta valle del Cervo. Ma che i ministri protestanti officiassero intra moenia “non sembrerebbe cosa credibile, ma è pur troppo da lamentarsi”. I cattolici erano turbati da due fatti drammatici: che qualcuno, nella fattispecie tale Giuseppe Becchia che aveva affittato ai valdesi un alloggio di sua proprietà situato al Fossale (dalle parti del fu stabilimento Fila), aiutasse materialmente il “nemico” penetrato nel contesto urbano e che molti altri ne sostenessero la libertà di culto, anche se, come detto, per un secondo o terzo fine. Le settimane seguenti allo scoppio del caso furono un susseguirsi di pugnalate a mezzo stampa tra affermazioni e smentite per minimalia (il Becchia sfrattò o non sfrattò gli evangelici dal locale che utilizzavano per il culto? Si allontanarono sponte loro perché i vani erano troppo piccoli per contenerli tutti durante le cerimonie oppure l’affittuario si convinse che era meglio liberarsi di quella compagnia non proprio di moda?) e disquisizioni d’ampio orizzonte su quale religione fosse intrinsecamente e oggettivamente migliore (naturalmente la piccola parte sana in quelle protestanti era la loro indiscussa derivazione, seppur degradata, dal cattolicesimo), su quali effetti portava ai popoli a crede a Roma o alla Riforma con tanto di esempi sui paesi protestanti, quelli decisamente cattolici e quelli misti, nonché sulle prospettive mondiali e locali (le cifre della Curia davano a duecento unità al massimo gli adepti delle sette biellesi, ma era di sicuro una stima per difetto) di una così erronea religiosità. Così si andava sostenendo la prossima scomparsa del protestantesimo addirittura nelle terre tedesche e “Biella Cattolica” rilanciava articoli del Tageblatt berlinese e del Kölnische Volkszeitung di Colonia che davano per spacciata la “Chiesa nazionale” ridotta ai minimi termini. Liberali ben disposti a parte, i protestanti cittadini tentarono di contrattaccare con un libello dal titolo “Pro veritate”, ma l’iniziativa editoriale non ebbe grande diffusione. La non troppo fortunata sortita degli evangelici suscitò altri caustici commenti dottrinali e rinnovato astio, ma fu salutata come una vittoria della parte filo romana. Anche perché mise a nudo quell’ipocrisia di fondo che aveva caratterizzato l’appoggio ideale dei laici anticattolici. “Anzitutto però, dobbiamo rallegrarci coi giornali cittadini che non vollero dar ospitalità a quella loro robaccia, e coi tipografi biellesi che si rifiutarono di stampare quel povero numero unico; sicché i Cristiani Evangelici per parlare ai buoni biellesi dovettero andare a cercarsi dei tipi protestanti a Torre Pellice”. Era impensabile uno schieramento tanto palese da parte di testate cittadine o di stampatori nostrani. Sarebbe stata riconosciuta come abiura e non era il caso. Per niente intimorito dall’insuccesso della pubblicazione (un largo pubblico sarebbe stato da annoverare tra i miracoli, cui peraltro i protestanti di norma non credono se non a determinate condizioni), il ministro Giovanni Daniele Maurin da vero missionario in landa di infedeli trovò un’altra sede per la sua chiesa tra lo sdegno generale: dopo il Becchia un certo Levis concesse qualche sua stanza in via della Funicolare (via Amendola), a due passi del duomo! Nel gennaio del 1895, dalle pagine della “Tribuna Biellese”, il predicatore invitava i suoi seguaci a prendere parte ai culti domenicali due volte al mese (ingresso libero…). La stampa avversa non si fece scappare l’occasione di ironizzare sul fatto che la sala adibita alle celebrazioni era stata occupata sino a poco prima dal banco dei pegni del rigattiere Schintone e, di conseguenza, quello allestito dal pastore Maurin non poteva che essere un “bazar evangelico”. In ogni caso c’era poco su cui scherzare: Tollegno docet! Verso la fine di settembre del 1890, alla morte del parroco don Levis, fu designato per concorso il suo successore nella persone di don Agostino Torrione, già viceparroco di Adorno. I tollegnesi non gradirono la nomina preferendogli il loro economo spirituale, don Emilio Sereno. Gli animi si scaldarono in quel primo scorcio d’autunno e in paese si fece forte il partito di coloro che ponevano la questione in modo drastico: o don Sereno parroco o farsi tutti protestanti! La situazione stava per degenerare: un prete scortato dai carabinieri per celebrare la messa, qualche atto vandalico e alcuni arresti. Si mormorava che “vi sia chi fa propaganda per chiamarvi ministri protestanti”, si stupivano i cattolici dabbene e sul giornale si scriveva: “Noi stentiamo a credere che si voglia giungere a tanto eccesso ed accecamento”. Poco dopo a Tollegno si tornò a più miti consigli e i paesani, come scrive il Lebole, “non restarono delusi” da don Borrione.
Per le immagini:
Il fondatore della Chiesa valdese di Biella, insieme a Giovanni Daniele Revel (attivo a Ivrea dove sua figlia Luisa sposò l'ing. Camillo Olivetti di fede ebraica), fu Enrico Matteo Malan. Nato a Luserna San Giovanni nel 1851, arrivò in città da Ivrea durante il quinquennio 1889-1894. In quel periodo ebbe contatti anche con le comunità valdesi di Piedicavallo e di Pollone. Morì a Biella il 10 gennaio 1894. Per qualche mese gli successe Daniele Gay. Giovanni Daniele Maurin, nato a Pinasca nel 1858, dopo due anni a Londra come collettore fu inviato a Biella per sostituire il defunto Malan nel giugno del 1894. Guidò i valdesi cittadini e, in parte, di quelli di Piedicavallo fino al 1901 quando fu trasferito a Verona. Morì a Genova nel 1939. Sua moglie, Frida Mader, lo seguì a Biella e nei suoi numerosi spostamenti. La donna era una apprezzata scrittrice che ebbe contatti con De Amicis, Fogazzaro, Giacosa e Mistral. Altri pastori valdesi attivi nel Biellese furono: Giovanni Daniele Revel a Biella (1889), Daniele Gay a Biella (1894), Pietro Chauvie a Biella e Piedicavallo (1902-1903), Giosué Tron a Biella (1912-1919), Giovanni Petrai a Piedicavallo (1923-1925), Diodato Rosati a Piedicavallo (1925-1935). Queste notizie e le immagini di Maurin e della moglie sono tratte dal sito www.studivaldesi.org.
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