Il Cervo è un lupo che azzanna la sua Bürsch [Eco di Biella, 12 ottobre 2020]
- 12 ottobre 2020
Tipologia
- articolo di giornale
Contenuto
Il Cervo è un lupo che azzanna la sua Bürsch
Secoli di piene e di disastri, ma la montagna è anche questo
Non cerchiamo il “colpevole” a tutti i costi: è un problema culturale
Quando anche la pietra tradisce è il momento di fermarsi a riflettere
Correva l’anno 1666. “In questo tempo nel giorno ventisei 7bre il fiume Servo venne con gran rovina sopra di Piedicavallo e condusse via vent’una casa del Cantone di là della Chiesa, si salvarono tutte le persone, ma condusse via tutta quanta la robba, come pure le cassine in quantità e prati con arbori al longo del Fiume”. Così annotava su uno dei suoi registri don Giovanni Battista Furno, parroco di Campiglia Cervo. Correva l’anno 1666 (in verità la data non è certa, ma di sicuro nel ‘600) e il Cervo si comportò come venerdì scorso. Anzi, molto peggio. Tre secoli e mezzo fa una piena del torrente distrusse una parte consistente del paese che sta in cima alla Bürsch. Anche allora non pulivano gli alvei? Anche allora non si occupavano dei boschi? Anche allora i valìt non si prendevano cura del loro territorio? I fatti drammatici della settimana scorsa hanno, ancora una volta, ferito nel profondo la terra biellese e, in particolare, l’Alta Valle del Cervo. Su questo non si discute e non ci sono né se né ma di fronte a chi ha subito danni, di qualsivoglia entità. I peggiori, tra l’altro, non sono quelli che si vedono adesso a ridosso dell’asta fluviale. Sono e saranno quelli a lungo termine sull’economia di un’area al limite della depressione ormai da molti anni (per quanto si siano registrati di recente incoraggianti segnali di vitalità). Discuto, invece, a livello generale sull’avvenimento nel suo complesso e, soprattutto, sulle condizioni che l’hanno provocato e caratterizzato. E anche sulla percezione tratta da molti. In primis metto in discussione il pregiudizio e il qualunquismo. Soprattutto quando qualsiasi ragionamento o comportamento punta esclusivamente a “trovare il responsabile”, a individuare qualcuno cui dare la colpa. Il capro espiatorio cui attribuire cause ed effetti in modo da sgravare il resto della comunità, in modo da non rimanere tutti ugualmente esposti alla furia degli elementi senza un riparo amministrativo o giuridico dietro cui salvare coscienza e faccia. Attenzione, questo non significa tutti colpevoli, nessun colpevole. Però l’esperienza insegna che l’indignazione d’ordinanza non porta quasi mai né alla verità né alla effettiva attribuzione di eventuali responsabilità. Non consola e non ripaga nessuno affermare che questi eventi si sono sempre verificati e che continueranno a verificarsi. Non consola e non ripaga nessuno, ma purtroppo l’affermazione corrisponde al vero. Basta un po’ di voglia di indagare nel passato per avere conferma dello stato delle cose. Le piene disastrose furono tali e quali a quelle odierne, e spesso ben più devastanti, perché colpivano comunità più indifese e povere di mezzi e di tecnologia. Quella del 1666 non fu la prima e non fu l’ultima. Non avendo dati pluviometrici e meteorologici disponibili per quella descritta da don Furno e nemmeno per la maggior parte di quelle successive, non siamo neppure in grado di stabilire se la büra del 2 ottobre sia stata tra le più potenti. Certo, le informazioni diffuse in questi giorni attestano che la quantità d’acqua caduta nell’unità di tempo sulle montagne dove nasce il Cervo è stata notevole. Ma quanta pioggia cadde nel 1827 quando una frazione di Piedicavallo fu sommersa e trascinata via? Il professor Goffredo Casalis, nel suo “Dizionario geografico – storico – statistico - commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna” del 1846 (volume XIV), rievocava antiche alluvioni che si abbatterono sulla zona. “Nel corso delle età venne colpito da gravissimi disastri: nel secolo XVI il torrente Cervo in una sua piena distrusse tutto un quartiere attiguo a Piedicavallo [il Casalis faceva riferimento alla inondazione ricordata da don Furno, sbagliando data, oppure a un’altra ancora più remota? n.d.a.]”. E poi aggiungeva: “Nel dì 27 settembre 1827 per le inondazioni delle sopraddette correnti d'acqua vi furono sommamente danneggiate le abitazioni, le strade, e caddero diversi ponti; a tal che i terrazzani, e massimamente quelli di Rosazza dovettero soggiacere a gravi dispendi per la formazione di varii dicchi, e ripari”. Rosazza, all’epoca non ancora comune autonomo, subì i danni maggiori. Gli stessi che abbiamo visto in centinaia di immagini in questi giorni. Allora la lurïa si era mostrata ai bambini rosazzesi, lo stesso giorno del 1666. Anche a Rosazza nessuno aveva fatto tesoro delle esperienze dei vecchi? Oggi nessuno pulisce, nessuno tiene in ordine… Una volta, invece… I nostri vecchi sì che sapevano come si faceva. Non c’era il riscaldamento globale (che in questa storia riveste il ruolo del protagonista) ed erano saggi come noi non siamo più da tanto tempo… Eppure, andavano sott’acqua e morivano travolti dalle ondate di piena o soffocati dal fango, e vedevano le loro case crollare, i loro prati erosi, i fianchi delle montagne franare. Come noi e più di noi, ma è così facile dire che prima era meglio, che si stava meglio. Nella Bürsch, come altrove, si tribolava a campare e lì, qualche volta, il Cervo si trasformava in lupo e dava la caccia agli uomini. Il Cervo è un lupo. Azzanna. Come ha fatto alla Malpensà. Crediamo di averlo addomesticato e viviamo con lui accanto, a pochi passi, come fosse un innocuo cagnolino. Ma è un animale selvaggio e quando se ne ricorda non può che fare ciò che deve. La Natura lo impone. Non è colpa del Cervo quando fa il lupo e ulula e sbrana le sponde, lacera le case e divora i ponti. È lo stesso torrente sui cui massi, qualche settimana fa, prendevamo il sole. Nelle sue lame facevamo il bagno. Nei libri dei morti delle parrocchie si contano numerosi i decessi per acqua nei secoli passati. Quasi mai i parroci parlavano di piene dei ruscelli affluenti o del Cervo, ma chissà quanti valligiani e quante valligiane sono stati rapiti dalle ondate improvvise. Avevano paura, ma non potevano stare lontani dalle rive. O forse avevano “troppa confidenza”. I nostri avi della valle non erano né migliori né peggiori di noi e per quanto ci riguarda è il caso di smetterla con la solita tiritera dei boschi da pulire e degli alvei da sgombrare. L’ho già scritto più volte: Quintino Sella, già ai suoi tempi, si lagnava dell’incuria di coloro che ora mitizziamo per piangerci addosso prima di stramaledire il tempo ed il governo, come cantava De André. Con questo piglio da vecchi alla piola non aiutiamo affatto la gente della Bürsch. Le opere dei nostri antenati hanno retto in alcuni casi e in altri no. Il che significa che la piena è stata non tanto eccezionale, quanto diversa. Il torrente non scorre sempre nello stesso modo. Si dimena, si contorce, è una bestia che cerca di scrollarsi di dosso la sua stessa energia distruttiva. Non è prevedibile, o quasi mai. Da quanto era lì il ponte della Coda alle Ravere? Non era così antico come sembrava, ma comunque vetusto, ed era ardito e solido, agile, bello. La presunzione degli uomini fatta di pietra, piantata nella pietra. Ma anche la salveja non può opporsi alla forza della corrente e di ciò che la corrente trascina con sé. Un testimone della storia della vallata annientato in pochi attimi. Per costruire ci vogliono generazioni, per distruggere qualche colpo ben assestato. I macigni dell’alveo del Cervo da Passobreve in su sembravano smerigliati. Abrasi da un flusso denso e possente. L’ultimo ponte di Rosazza è stato asportato come se non dovesse stare lì, come se non fosse il suo posto. Il torrente ha tollerato quella presenza e poi l’ha eliminata perché intralciava il suo passaggio impetuoso. Eppure, era fatto a regola d’arte, dai savi, dai picapere. Abbiamo bisogno di certezze, di salde certezze, ma non cerchiamole a tutti i costi dove non ci possono essere. Qualcuno ha sottolineato, giustamente, che questa volta il Pinchiolo ha tenuto, che gli argini hanno resistito. E che basterebbe investire in difese spondali e che è tutta una questione politica e bla bla bla. Non è (solo) una questione politica. È più che altro un discorso culturale. In questo caso, per come sono andate le cose, il qualunquismo è proprio annidato lì. La büra è iniziata sulle cime dei monti, dove, invece di nevicare, è piovuto come rare volte accade. Il clima è cambiato: fa più caldo e quando dovrebbe scendere la neve cade la pioggia. Qualche grado in più e le vette innevate si tramutano in frane e melma che abbatte e sommerge. Anche per questo, indigniamoci pure quanto vogliamo, nessuno pagherà mai. Detto questo, che cosa dovremmo fare? Difese spondali fino al lago della Vecchia? Rimodellare il bacino idrografico del Cervo in forma di roggia, di canale di scolo? Briglie e muraglioni ovunque? Non proponibile, non praticabile.
I ponti sono sempre stati danneggiati, sono sempre caduti, sono sempre stati ricostruiti. In legno prima, poi di pietra. Le pedanche, le pontegge, i semplici guadi fatti di sassi disposti a misura di passo, poi i ponti veri e propri… Non erano e non sono eterni. È solo questione di tempo, poi tutti cedono all’acqua. Il citato don Furno, fu il primo a far costruire in muratura e legno il ponte delle Fontane nel 1689. Poi il buon “Magnanin”, duecento anni dopo, ha voluto sostituirlo con un manufatto di pietra. È ancora lì a scavalcare il Cervo all’Asmara e questa volta non ha ricevuto oltraggio, ma prima o poi capiterà. I racconti delle piene del padre liquido della Bürsch e di eventi calamitosi provocati dalle piogge intense tramandano una storia di continuità. Le esondazioni e gli smottamenti sono parte integrante della vita della vallata. Non si possono annullare per decreto e tanto meno negarne l’esistenza solo perché siamo nel Terzo millennio e perché certe situazioni si verificano solo nel Terzo mondo. Quei racconti remoti sono i medesimi che abbiamo sentito tutti in questi giorni. Paura, rabbia, incertezza, insofferenza per i disagi nella viabilità: tutte pessime compagnie, ma non c’è modo di evitarle. La persistenza delle alluvioni unisce idealmente epoche diverse e lontane. Nel 2002, dopo il 1968 e il 1981, dopo episodi più o meno gravi avvenuti nei decenni precedenti (a partire dai fatti del 1916 riguardanti la Pragnetta e la frana di Bogna), si contavano i medesimi danni. E quelli più distanti erano i momenti del mito di quando sotto gli alberi non c’era mai una foglia, di quando i greti dei rivi erano privi di qualsivoglia intralcio al deflusso, di quando non sarebbe mai dovuto accadere nulla, eppure… Sfogliamo il volume di Remo Valz Blin, leggiamo gli studi del figlio Gianni (interessante quello pubblicato sul bollettino DocBi del 1992 dal titolo “Calamità naturali in Alta Valle Cervo”) e prendiamo la giusta distanza da chi pensa che le inondazioni si possano scongiurare con il rastrello o il decespugliatore, o magari con i detenuti in ceppi. La montagna e le sue acque resteranno pericolose e lo saranno sempre di più perché le condizioni generali della meteorologia sono cambiate. Sicuramente una maggiore manutenzione dell’ambiente naturale e del paesaggio antropizzato possono sortire effetti positivi, ma chi potrà fare tale manutenzione? E perché mai? Cinicamente, politicamente, non ne vale la pena. La valle si spopola e chi resta non può essere assiduo ed efficace. Ripopolare la valle, accettando i rischi di viverci, è una delle soluzioni contro un abbandono il cui prezzo sarà sempre più alto. Ecco perché è una questione culturale prima ancora che politica. Occorre immaginare, progettare e attuare una prospettiva residenziale basata sulla consapevolezza e sui servizi che faciliti la stanzialità e, di conseguenza, motivi interventi migliorativi, possibilmente non sempre post, ma preventivi. La sostenibilità del recupero si fonda sulle presenze continue e non sulle seconde case. Per questo la valle deve inventare un’attrattività più forte delle difficoltà che portano a scegliere la città, il fondovalle o la piana. Lentamente gli stessi insediamenti assumerebbero un’altra connotazione, di sicuro meno a ridosso del Cervo o dei suoi bizzosi immissari. Abbiamo o dovremmo avere abbastanza letteratura per prendere decisioni coerenti e logiche per impedire la morte della Bürsch garantendo un certo livello di sicurezza per i suoi abitanti. Anche Federico Rosazza dovette fare i conti con il Cervo che insidiava il suo amato paese. Ma il suo intervento, per quanto di ampia portata, non ha potuto resistere ai ripetuti assalti della tarda primavera e dell’estate del 1923. La testimonianza di quanto avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 giugno di quell’anno non differisce di una virgola dalle impressioni di chi ha vissuto le ore più oscure dell’ultima piena. La dichiarazione di una donna residente al Pinchiolo fu pubblicata sulla “Rivista Biellese” del luglio 1923. “A mezzanotte poiché l’urlo del torrente si faceva vieppiù minaccioso e la pioggia seguitava a dirotto, ci alzammo e dal balcone vedemmo che l’enorme massa delle acque si era riversata sulla sponda opposta verso il lavatoio. Intuimmo la rottura della strada per Rosazza e… respirammo. Ad un tratto ci parve che la piena si arrestasse di botto. Eppure la pioggia scrosciava più fitta, nel buio, in quel subito silenzio di morte. Era evidente che lassù, sulla Mologna, un enorme franamento aveva ostruito l’alveo del torrente provocando un subitaneo arresto della piena. Quali potevano essere le terribili conseguenze? Primo nostro pensiero fu di salvare la biancheria, il mobilio, le cose nostre più care, più intime. Provammo ma non riuscimmo! Di fuori, nel buio più fitto scrosciava una pioggia infernale, in casa vi era il pericolo di esser travolti da un momento all’altro. Ad un tratto un mugolìo spaventoso si avvertiva che era avvenuta la rottura e che la rovina era imminente. Una enorme montagna d’acqua si delineò sulla sponda opposta, una immane valanga d’acqua si rovesciò e si abbattè con violenza inaudita sulle nostre case e sul ponte. I nostri poveri piccoli orti forse ci salvarono col loro sacrificio, ma la spalla del ponte e parte di esso scomparvero in un attimo… Quale notte spaventosa, eterna!”. Non è cambiato nulla. Come in altre aree vallive, spesso le abitazioni e le infrastrutture viarie sono molto vicine ai corsi d’acqua. È più comodo, ma questo è il fio. Un ultimo appunto. La frana di San Giovanni d’Andorno è uno spettacolo triste che non si potrà dimenticare facilmente. Come difficilmente si potrà ripristinare il transito sulla strada per la Galleria Rosazza in tempi rapidi. Quello che mi ha colpito di più è la roccia che si è staccata dal fianco della montagna per abbattersi sul fabbricato settecentesco del santuario. Parlo di roccia perché non c’è quasi traccia di terra. Solo pietra. Osservandola (e prima non l’avevo mai fatto) ho notato che non è compatta sienite della Balma, ma un altro tipo di materiale. Un granito esausto, friabile, disposto a blocchi e a strati, e non fuso in un'unica massa, bensì fessurato e instabile. Un muro di mattoni senza legante. L’acqua ha avuto buon gioco. Anche perché si è infiltrata in profondità per secoli, millenni, forse milioni di anni. I bordi della frana sono lisci, levigati, senza strappi. Quel deiro era il posto peggiore in cui scavare una strada e chi la aprì aveva ben chiaro che non ci si poteva fidare. Tant’è che la galleria stessa dietro la chiesa e altre opere murarie non sono che contrafforti per sostenere la balma che incombe, la stessa balma che ripara il Santo venerato nella chiesa. Anche in questo caso, i vecchi hanno commesso un errore. Le solide competenze tecniche del secondo Ottocento hanno reso orgogliosi e tracotanti gli uomini, e anche l’hybris ha un alto fio. Non così solide sono le pietre, non tutta e sienite, e per il futuro della Bürsch converrà tenerne conto. Questo vale per tutto, a partire dalle convenzioni e dalle convinzioni più radicate. I boschi più difficili da tenere puliti sono quelli che abbiamo nella testa.
Link esterni