Nel piccolo Oriomosso ecco le due fontane che segnano il Progresso [Eco di Biella, 18 ottobre 2014]

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18 ottobre 2014
La fontana di Oriomosso (foto Danilo Craveia, ottobre 2014)
La fontana di Oriomosso (foto Danilo Craveia, ottobre 2014)

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Nel piccolo Oriomosso ecco le due fontane che segnano il Progresso
 
Una si trova ad Apice, dalle parti di Benevento, un'altra a Partinico, vicino a Palermo, un'altra ancora a Licata. Ce n'è una a Raffadali (Agrigento), poi una a Teramo, una a San Niccolò a Tordino (sempre nel Teramano). Di certo in altri centri del Paese esistono ancora altre piazze intitolate al Progresso, ma quella che ci interessa oggi è, forse, la più ridotta e la più antica: la Piazza del Progresso di Oriomosso. Associamo il Progresso alle macchine e alla tecnologia, e al benessere che da queste sono derivate e derivano. Nel caso di Oriomosso, invece, possiamo individuare un riferimento diretto a un insospettabile indice di Progresso, ovvero all'elemento più semplice: l'acqua. "Avere" l'acqua è il più importante presidio di civiltà. Senza il governo sull'acqua non si ha possibilità di progredire e anche una comune fontana, come quella che zampilla al margine della piazzetta oriomossese, racchiude in sé il senso più profondo del tendere a migliorare, da parte degli uomini, le proprie condizioni di vita. Ma se l'elemento è semplice, non semplicistica deve essere la "lettura" di quel luogo, per quanto minimo, e dei simboli che reca. La storia e la simbologia della Piazza del Progresso in quel lembo di Bürsch è tutta lì, ma va un po' scoperta sotto la patina del tempo trascorso e dell'abitudine della quotidianità. Di per sé il manufatto, cioè la fontana, di primo acchito sembra dir poco. Ma a ben guardare non si tratta di una banale pissa, bensì, oltre che di un "dissetatoio" per esseri umani, di un abbeveratoio per le bestie e di un lavatoio ricavati nel fianco della montagna. Si riconosce subito la traccia nitida del lavoro: mazza, scalpello, pala e piccone, filo a piombo, centine e carpenteria, un po' di idraulica. C'è la confidenza con la pietra. Siamo di fronte a qualcosa che "prima" non c'era e che, una volta realizzato, ha cambiato il modo di vivere di una borgata intera. "Perché è bene sapere che questo paesello - si legge sul "Corriere della Vall'Andorno" del 1876 (epoca di costruzione della fontana) - potevasi dire senz'acqua; una vecchia roggia fornivane loro una minima quantità per consumo giornaliero, con molti disagi e fatiche massime nella stagione invernale". Ecco, un'esigua fontanina ha risolto un enorme problema. Allora non c'era un acquedotto, solo una roggia scomoda e non sempre limpida, e Oriomosso non è posto per scavare pozzi. Difficile immaginare che cosa abbia potuto significare quell'opera per la gente di lì. Opera doppia, visto che una gemella della fontana della Piazza del Progresso si trova più in basso, all'estremità inferiore della frazione, dove si incontra la sua omologa (con tanto di lavatoio) nella fontana "dla gojëtta". Non si trattava di fornire l'acqua a chi, passeggiando, avesse voluto prenderne un sorso, non si voleva fare dell'arredo urbano. Bella o meno che fosse (è però tremenda l'aggiunta pensilina in ondulato), la duplice fontana serviva agli abitanti e ai loro armenti. Ma, al di là della pura funzione, va indagata meglio l'intenzione "progressista". L'erogatore ha le fattezze di una testa bovina (come quella sulla fontana voluta a Rosazza nel 1873 da Lincoln Valz Blin) per indicare con precisione alle persone quali fossero gli altri "utenti" designati, cioè quelli a quattro zampe. Richiamo zoomorfo usuale, anche se non frequentissimo (di norma i leoni andavano e vanno per la maggiore), nella iconografia "fontanistica" ottocentesca. Piuttosto strana, invece, la stella sovrapposta al bucranio. Non che le stelle siano rare, e non mancano sulle fontane della valle, tanto singole quanto a terne. Ma il fatto che sia rovesciato rende l'astro pentapuntato di Oriomosso abbastanza singolare. Ci si può sbizzarrire tra libri e siti Internet per provare a dare un significato più o meno esoterico a quel "pentacolo" che punta al mondo ctonio, anziché verso le sfere celesti, ma si rischia di finire chissà dove e non è caso. In ogni caso la fontana di Oriomosso è il prodotto fisico di un ideale di comunità e di appartenenza che si fatica a ritrovare in questa nostra epoca di indiscutibili comodità acquisite e di individualismo strenuo del tutto dovuto "perché pago le tasse e quindi...". Nel 1876, a Oriomosso, come altrove nella valle e nel Biellese, si pagavano le tasse, eccome, e si menava vita ben più grama della nostra. Per "avere" l'acqua (quasi) in casa si costituì un apposito sodalizio e i terrazzani si autotassarono e faticarono gratis tutti insieme per ottenere un risultato condiviso. Certo il Comune di Quittengo fece la sua parte e non venne meno la generosità di quel Federico Rosazza al quale l'Alta Valle Cervo dovrebbe tributare gli onori di "Padre della Patria", ma il più lo fecero i frazionisti di Oriomosso. La lapide posta per eternare la memoria dell'evento fa bene il suo mestiere e racconta di quei "sacrifizi" e di quella "operosità" cui le genti delle nostre montagne erano aduse sin dalla più tenera infanzia. Il marmo inciso rammenta anche donde quell'acqua proveniva e tuttora proviene e a quale prezzo. Quei valligiani, "spinti da tanta necessità - è ancora l'antica voce del "Corriere della Vall'Andorno" di quello stesso 1876 - si riunirono in consorzio, e in poco più di sei mesi mandarono a compimento una condotta di ghisa della lunghezza di mille metri all'incirca che attraverso a rupi, burroni e boschi riuscì a soggiogare e condurre schiava l'acqua di copiosissime fonti che sgorgano in una regione detta Riana". Addomesticare quell'acqua sorgiva e portarla in paese come una vacca tirata per il naso costò la bellezza di diecimila lire di allora. Il senatore-sognatore e il sindaco ne misero sul piatto mille insieme. Il resto uscì dalle tasche di chi voleva vedere il Progresso filare come argento vivo fuori dal tubetto rugginoso e riempire la pila per spegnere la sete delle mucche. Con giusto orgoglio il presidente della società, Antonio Boggio Bertinet, pronunciò il discorso inaugurale dopo che il parroco di Campiglia Cervo, don Stupenengo, e il cappellano don Dazza avevano benedetto entrambe le fontane. Ci fu un banchetto, quell'8 settembre, e festa per tutta la borgata. Si parlò in schietta cordialità e in unità d'intenti, si scherzò in dialetto e si citò il latino di Sallustio: "concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur", come a dire che le più minute cose crescono nella concordia, mentre la discordia annienta quelle più grandi. E c'è ancora un aspetto che si fa rilevare osservando con la dovuta attenzione, aspetto che era già evidente in quel giorno di fine estate del 1876. Il "Corriere della Valle d'Andorno" descriveva Oriomosso e la sue gente: "a quest'altezza inutile è l'illudersi, il terreno poco offre all'alimentazione dei suoi abitanti, quindi è che i maschi tutti d'indole sveglia e di forte costituzione li vedi lasciar la patria a 10, 12 anni e col genitore attraversare monti e mari per guadagnarsi il vitto [...]. Con una popolazione di 220 abitanti trovi Oriomossesi in Affrica (Egitto ed Algeria), in America, Repubblica Argentina, Uruguaj e nel Perù, ne trovi in Francia, nella Svizzera, ed in tutta Italia ove la colonnia maggiore è in Torino". La fontana e la sua inaugurazione rappresentarono un'occasione di ritorno, anche solo virtuale, nel luogo delle radici. Scrissero gli oriomossessi lontani da casa lettere di augurio e di encomio. Da Moneglia (riviera ligure di Levante) e dalla berbera Tiaret, sull'Atlante algerino. Durante il convivio, fra la commozione dei presenti, furono lette tutte con l'enfasi del caso, specialmente quelle da più lungi spedite. Prese la parola anche Pietro Boggio, ufficiale telegrafico (il telegrafo, altro araldo filiforme del Progresso!). Il canto della fontanella si faceva udire allora sino in Africa e richiamava alla avita Banda sulìa i pensieri, i ricordi e le speranze degli alpigiani emigranti. Oggi dovrebbe impartirci una fresca e ristoratrice lezione di umanità e di umiltà.

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