Naufragio sulla via di casa
di Anna Bosazza [dalla "Rivista Biellese" del luglio 2014]
Mancavano pochi giorni alla partenza. Da Bengasi Amedeo Bosazza... Sarebbe dovuto tornare con la famiglia nella Bürsch per un meritato periodo di riposo.
Erede dei picapere dei secoli andati, si era diplomato, nel 1908, assistente costruttore presso le Scuole Tecniche Professionali di Campiglia Cervo, come tanti valligiani, fra i quali, qualche decennio dopo, anche suo pronipote Giancarlo, mio padre. Con gli avi e molti discendenti condivise dunque la condizione dell’emigrante e l’andare e il tornare da luoghi remoti alla propria patria, in un moto oscillatorio continuo, cadenzato e alterno, come quello del pendolo Morbier che ha segnato e segna le ore, felici e no, della famiglia Bosazza fin da quel tempo remoto.
Figlio di Bartolomeo Bosazza e Antonia Savoia, Amedeo aveva sei fratelli, tra i quali Pietro. Fu proprio lui a lasciare precisa testimonianza della vita del fratello e ad essere l’inconsapevole narratore della storia che mi accingo a raccontare, se non di tutta, almeno del suo tragico epilogo e degli eventi che ne conseguirono. Ciò che egli non raccontò, nel suo epistolario con il nipote Osvaldo Mosca Cirvella, è tramandato dalle carte degli archivi, dagli articoli apparsi sulla stampa dell’epoca e da numerose altre lettere, che Lorenzo Mosca Cirvella ha pazientemente trascritto, amorevolmente conservato e generosamente condiviso con me.
Dovendo partire dopo pochi giorni, Amedeo il 27 giugno del 1935 spedì una lettera a suo cognato, Emilio Neggia, di Vallemosche. Ricorreva proprio in quel giorno l’anniversario della morte di Isabella Bosazza, moglie di Emilio. Amedeo, per cercare di consolarsi e consolare il cognato, gli scrisse: “perciò caro Emilio animo e coraggio a voler combattere per quest’altro po’ di tempo che ci rimane a percorrere questo nostro cammino ed arrivare poi a congiungerci con tutti i nostri cari, i quali ci precedettero”. Amedeo non poteva immaginare che di lì a poco sarebbe toccato proprio a lui raggiungere i cari cui faceva riferimento nella sua ultima missiva e che a Maffone, luogo deputato al sonno eterno per tutti noi nati, vissuti o in qualche misura figli di quel fazzoletto di terra, che è Campiglia Cervo, sarebbe andato non per portare i fiori alla sorella, ma chiuso fra quattro assi.
Amedeo nella Bürsch aveva di fatto vissuto ben poco ed essa probabilmente restava nel suo immaginario, come in quello di molti altri valligiani, come il luogo a cui tendere, il luogo dove tornare, almeno da morti. Come molti valit infatti, partì giovanissimo con prima destinazione gli Stati Uniti d’America e, a soli 22 anni, nel 1904, ricevette dal Distretto dello Stato della Carolina del Sud il certificato di cittadinanza.
Da quel momento in poi lavorò nei luoghi più disparati e per moltissimi impresari, che spesso attestarono le sue capacità professionali e il suo carattere conciliante e collaborativo.
Tornato dagli Stati Uniti, si spostò in lungo e in largo per la Penisola. Prima destinazione fu Siracusa, tra il 1909 e il 1910, dove, per conto della Società Elettrica della Sicilia Orientale, lavorò alla realizzazione dell’Impianto idroelettrico di Cassibile.
Il canale di presa era in galleria per 4,5 km e in trincea per 3,7 e per la sua realizzazione vennero impiegati addirittura più di 800 operai. Cantiere non facile dunque, ma Amedeo si distinse come assistente di scavo e muratura. Poi, nel 1911, alle dipendenze delle Imprese Elettriche Conti – Impianti idroelettrici Toce e Devero si trasferì nella zona di Verbania con l’incarico di assistente tecnico per la costruzione del serbatoio di Codelago, una diga in grado di contenere dieci milioni di metri cubi d’acqua. Anche in quel caso il suo operato venne giudicato eccellente. L’epoca dei matrimoni nell’Alto Cervo è sempre stata tradizionalmente l’inverno, momento in cui gli uomini, ritornando dalle fatiche estive, erano presenti in Valle. Amedeo, non so se per amore di tradizione, per effettiva necessità o per un fortuito caso, proprio in inverno, il 2 gennaio del 1911, sposò Graziella Cucco Giannetta in un piccolo oratorio, quello di una frazione così piccola, che potrebbe appartenere ad una fiaba di gnomi e fate, Gliondini. Sotto gli occhi di San Mauro, San Giovanni e dei piccoli putti paffuti, che occhieggiano nel dipinto della pala d’altare, realizzata ai primi del ‘700 dal più illustre degli abitanti della frazione, il pittore Giovanni Antonio Cucchi, egli promise amore eterno a colei che stava diventando sua moglie e che in breve lo avrebbe reso padre di una bimba, Diva.
Quella nascita non rappresentò una sosta nelle sue attività lavorative e nel 1912 in qualità di “capo brigata” per i rilievi tacheometrici, studiò i tracciati per le ferrovie siciliane per conto dell’Impresa Besenzanica, costruttrice della prima metropolitana di Roma, della ferrovia Adriatico Sangritana e oltre a molto altro, anche responsabile della riorganizzazione della Siracusa-Vizzini. Pochi mesi dopo Amedeo tornò al Nord, nell’Ossola, di nuovo nel settore idroelettrico, per la Società Elettrica Vigezzina impegnata nella costruzione della diga sul torrente Loana, nei pressi di Santa Maria Maggiore.
Tra il 1912 e il 1913 ebbe il primo incarico libico, a Bengasi, come capo cantiere nei lavori di costruzione della Caserma della Berka, per conto della Direzione del Genio Militare di Bengasi e della ditta Busalla & Roncoroni, di cui era procuratore.
Nel triennio 1916-1918 tornò nuovamente in Italia e si impiegò presso la Itala Fabbrica Automobili di Torino, prima come operaio collaudatore del materiale, poi come assistente ai lavori murari. Trovandosi in una grande città, ne approfittò per ampliare le proprie competenze, frequentando un corso di contabilità presso una scuola torinese. Ciò gli procurò un ulteriore titolo di studio, utile probabilmente a lavori successivi. Nello spirito insomma egli fu in tutto e per tutto un uomo della sua terra, un uomo che non amava perdere tempo.
Fino a qui non si può dire che la sua vita sia stata né noiosa, né troppo triste, pur essendo talvolta la solitaria esistenza di un girovago. La sorte gli aveva inoltre offerto opportunità ed occasioni di crescita professionale, sicuramente da lui colte anche grazie ad una personale capacità di azione, reazione e sicuramente di sacrificio. Nel 1919, però, il destino gli presentò un primo pesante conto: la morte della piccola Diva, a poco meno di otto anni, per via della “spagnola”, un’epidemia influenzale che in Italia uccise più persone della Grande Guerra appena conclusa e mise in ginocchio il già fragile sistema sanitario del paese.
Amedeo e Graziella pagarono il conto con la sorte e seppellirono a Maffone la loro unica figlia nella tomba di famiglia e lì si trova tuttora, vegliata da un piccolo angelo di marmo bianco.
Questo grande dolore non li fermò e Amedeo nel ’20 lavorò per l’impresa cagliaritana fondata dallo zio Giovanni Battista Bosazza, il “barba cavaliere”, come veniva ricordato in famiglia, colui che aveva fatto fortuna in Sardegna e per il quale il bisnonno Bartolomeo, suo fratello, non ha scritto parole tenere. Le carte d’archivio conservate presso il Santuario di San Giovanni d’Andorno, rimaste segretate per lungo tempo, parlavano infatti del tentativo dei fratelli dell’abbiente barba, di impugnare il testamento con il quale egli nominava proprio il Santuario di San Giovanni d’Andorno erede universale “di sua vistosa sostanza” (circa un milione di euro di oggi), come ricorda la lapide sottostante il mezzo busto a lui dedicato a lato della chiesa, ma questa è un’altra storia.
Dopo il cantiere cagliaritano, Amedeo si dedicò ad un’altra diga, quella sul torrente Turrite presso Lucca, per conto della Società Ligure Toscana di Elettricità e subito dopo partì per un cantiere in Sudan, per conto della The Sudan Construction Company e Alessandrini Perry a Makawar.
La vita, come si sa, con una mano strappa e con l’altra offre e nel 1923 venne al mondo la secondogenita di Amedeo e di Graziella, madre trentacinquenne, età che oggi non stupisce, ma che per allora non era probabilmente usuale e fa ben comprendere il desiderio di maternità e di famiglia della coppia. La bimba venne chiamata Mirka (e anche Mea e Renza) e fu battezzata a Campiglia.
Dopo la nascita di Mirka giunse il tempo del secondo viaggio in Libia e del successivo trasferimento a Bengasi. Amedeo era infatti stato assunto dal SICAM, il Sindacato Italiano di Costruzioni Appalti Marittimi di Roma, che a Bengasi si occupava dei lavori nel porto. Amedeo prima affittò e poi acquistò un appartamento per la famiglia a Livorno, dove probabilmente egli visse ben poco, essendo molto impegnato nel cantiere libico. Dal 1924 molti altri membri della famiglia lo raggiunsero in Libia e il ritmo del loro esistere venne scandito, al contrario di come era accaduto nei secoli precedenti in Valle, dagli inverni in Libia e dalle estati nella Bürsch. Mirka ricevette infatti proprio nell’agosto del 1931 la Prima Comunione a Gliondini, nello stesso oratorio in cui i genitori si erano sposati.
In quegli anni ebbero una vita serena e restano documenti a testimonianza delle loro azioni: l’acquisto e trasferimento di un pianoforte per Mirka, quello di automobili di tutto rispetto, prima una Ford Berlina e poi una Balilla e, beffa del destino, anche un testamento, nel quale Amedeo nomina erede universale Mirka, lasciando alla moglie Graziella l’usufrutto di tutti i beni, non potendo supporre la tragica fine che li stava attendendo.
Nella lettera del 27 giugno del ’35 con cui si è aperto il racconto della vita di quest’uomo qualunque, ma significativa, perché testimone di un’epoca e di uno stile di vita che è quello dell’emigrante vallecervino, egli racconta al cognato dei suoi lavori, di aver deciso di partire quando la costruzione della testata del molo grande fosse terminata, di lì a poco, non più di quindici giorni. Si rammarica dei risultati scolastici di Mirka, giustificando le materie insufficienti, Italiano e Francese, non come una carenza di intelligenza o volontà, quanto piuttosto ad uno sconvolgimento fisico che l’aveva portata a crescere molto in altezza e Amedeo considera “anche il cervello avrà dovuto subire la stessa metamorfosi”.
Si raccomanda di non rispondere, perché la partenza è imminente e la lettera potrebbe essere inutile, come a dire che si sarebbero prestissimo parlati guardandosi negli occhi.
Questo non accadde.
Amedeo, Mirka, Graziella e sua sorella Lina si imbarcarono sul piroscafo Attilio l’8 luglio del 1935. Nessuno dei passeggeri aveva pagato il biglietto, perché si trattava di una licenza, inclusiva del costo del viaggio, che il SICAM offriva ai propri dipendenti. Con loro si imbarcarono il ragionier Battistoni con moglie e figlia, il magazziniere della ditta, Arturo Salabelle con la moglie e il figlio, la signora Billante con i tre figli e un ragazzino di dodici anni, Pietro Bonau. Alle 19 e 30 il piroscafo lasciava il porto di Bengasi diretto in Sicilia. Oltre ai 15 passeggeri e ai 15 membri dell’equipaggio, erano state caricate 900 tonnellate di grano cirenaico, destinate a fabbriche di pasta alimentare di Agrigento e Torre Annunziata. I passeggeri, ignari del proprio destino e del pericolo incombente, si trovavano nella sala da pranzo per consumare la cena e chissà con quale animo stavano salutando la Libia.
Chissà se la dodicenne Mirka, così sbocciata in altezza e forse in bellezza, era stata notata dal suo coetaneo salito a bordo, o forse, chissà, con lui e con gli altri ragazzini già aveva condiviso giochi anche a terra, nei pressi del cantiere presso il quale i padri lavoravano e, con loro, già stava favoleggiando il divertimento che li attendeva sul piroscafo, come avrebbe fatto ogni bambino. Ciascuno degli adulti avrà avuto un suo progetto o una sua aspettativa da custodire, come sempre è quando si intraprende un viaggio. A sole sei miglia marine da Bengasi però, il piroscafo si piegò e si inabissò, impedendo loro di raggiungere il ponte per mettersi in salvo e di realizzare qualunque futuro proposito.
Le scialuppe di salvataggio non erano state calate, e quindi se i passeggeri fossero stati in grado di gettarsi in mare non si sarebbero probabilmente comunque salvati. Il comandante, in un primo tempo definito “eroico” dalla stampa dell’epoca, raggiunse a nuoto un moto-peschereccio incrociato poco prima, il San Rocco e riuscì, conducendolo nel punto del disastro, a mettere in salvo coloro che nel frattempo non erano annegati. Si salvarono: un’unica passeggera, la signora Battistoni, trovata attaccata ad una stia di polli che galleggiava, con lei il cuoco Dullio Devani e altri sette membri dell’equipaggio. Il dodicenne Pietro Bonau tentò di raggiungere a nuoto il porto senza riuscirci e morì non così distante dalla riva, ma troppo per farcela e fu il padre ad accogliere il rientro in porto del corpo inanimato del figlio.
L’11 luglio ebbero luogo le onoranze funebri a Bengasi: “Si può affermare che tutta Bengasi era presente e che quindicimila persone hanno scortato nel funebre accompagnamento le bare che, adagiate su sei autocarri militari e avvolte nel tricolore, percorsero le vie e le piazze cittadine, fra i negozi chiusi e le case imbandierate. Il lunghissimo corteo si apriva con la musica presidiaria seguita da tutte le organizzazioni del Regime con bandiere e gagliardetti”. Balbo e Starace inviarono corone di fiori per rappresentare il cordoglio del Partito Nazionale Fascista, d’altronde era il grano probabilmente mal caricato e bilanciato sul piroscafo, che aveva causato il disastro e si trattava pur sempre del grano fascista di una colonia e dunque alle vittime vennero resi i più alti onori dello Stato.
L’articolista dell’epoca chiosò il proprio articolo dicendo che il carico era assicurato. Insomma nessun danno economico derivò per la perdita delle cose trasportate, restò solo la ferita negli animi di chi aveva “assistito” impotente a Bengasi e incredulo a Campiglia al naufragio dei propri cari.
Fu in breve anche aperta un’inchiesta per stabilire le responsabilità e Pietro, che in quegli anni lavorava a Serravalle Scrivia, iniziò un fitto scambio epistolare con il nipote Osvaldo, che si trovava a Bengasi. E’ dalle lettere che si apprende l’angoscia per l’accaduto, il tormento per le poche notizie dagli avvocati. Osvaldo si incaricò di risolvere i problemi a Bengasi e Pietro partecipò a diverse sedute del processo nella non distante Genova.
Il giornale "La Stampa" del 14 luglio del 1936 informa che il processo in Corte d’Assise si concluse con due condanne e due assoluzioni: l’armatore Palla fu considerato estraneo ai fatti e come lui il sottoufficiale di capitaneria Langiu, perché alla partenza la linea di immersione del piroscafo era regolare. Vennero invece condannati il capitano Andreucetti a dodici anni di reclusione e il comandante di armamento Piccione a un anno e sei mesi ed entrambi al pagamento delle spese e del risarcimento: quattrocentoventicinquemila lire per i parenti delle vittime e duecentosettantacinquemila lire a copertura dei danni (circa 500.000 e 300.000 euro attuali).
Dalle lettere si apprende che i fratelli di Amedeo, pur rappresentati in tribunale da un avvocato, non avevano ben chiaro il procedere della questione, tanto che l’epistolario si interrompe dando nota solo delle cause del disastro, ma non della fine del processo e del successivo, legittimo e sperato risarcimento economico, che ad oggi non sappiamo se mai arrivò a Campiglia.
Quel che è certo è il dolore e lo sgomento per un lutto tanto assurdo per chi restò. I disastri in mare appartenevano al vissuto degli emigranti, ma un inabissamento a così poca distanza dal porto fu sempre considerato in famiglia come la crudele beffa di un destino, che, per la seconda volta, si era accanito su Amedeo e i suoi famigliari, ricongiungendoli così alla piccola Diva, che già riposava al camposanto.
Venne decisa la costruzione di un piccolo monumento in memoria dei caduti in mare ed esso abbellisce ancor oggi la tomba di famiglia. Pietro ne descrive l’aspetto e, da bravo picapere, spiega ad Osvaldo che lo zoccolo, in sienite della Balma, era lavorato alla martellina. La donna triste scolpita in marmo e appoggiata sul basamento tiene in mano un’ancora, a memoria del tragico naufragio.
La sienite della Balma e un’àncora testimoniano il triste destino di questa famiglia valligiana: la prima, la nostra pietra, è simbolo delle radici e della nascita, la seconda rappresenta il mare e cioè la tragica fine. Il mare ebbe tanta parte nell’esistenza degli avi, che però, pur viaggiando continuamente fra i suoi flutti, avevano con esso poca dimestichezza e probabilmente non sapevano neppure nuotare.
Quello che oggi tiene compagnia con il suo canto alle piccole Diva, Mirka, ai loro genitori e a tutti i cari della mia e di tutte le famiglie di quell’angolo della nostra “piccola patria”, che è il cimitero di Maffone, è il suono rassicurante di altre acque, quelle del nostro domestico torrente, il Sarv.