Le "Particulae" della Bürsch: le antiche reliquie della valle

I Morandi di Piaro “importavano” arredi sacri e “particulae” nella Bürsch

Schegge della Vera Croce in un reliquiario di Campiglia Cervo

Le reliquie dell’Alta Valle Cervo in una serata del Bürsch Festival

I fratelli Antonio e Bernardino Morandi da Piaro sono valìt da studiare. Bernardino, nato nel 1645, fu il fondatore della cappella che porta il nome del casato, lungo il sentiero che da Piaro scende a Campiglia Cervo. Costruita nei primi anni del Settecento, la volle dedicata alla Vergine di Caravaggio, il che sottolinea ancora una volta i solidi legami, ma ancora tutti da indagare, tra la Bürsch e il Lodigiano e il Milanese. I Morandi compaiono più volte citati nella Storia della Chiese biellese di don Lebole come intagliatori e scultori, ma si tratta, molto probabilmente, di un errore. I due piaresi non erano artigiani o artisti, bensì commercianti e intermediari. Nei registri consultati dal nostro grande storiografo, infatti, i Morandi non sono mai indicati come realizzatori delle opere, ma sempre pagati come fornitori. Bernardino (con sua moglie) era attivo a Milano, mentre Antonio andò almeno tre volte a Roma per farsi consegnare importanti reliquie. La statua lignea della Madonna col Bambino visibile nella chiesa parrocchiale di Campiglia Cervo fu pagata allo stesso Antonio Morandi nel 1720, ma non per averla realizzata, bensì per averla procurata, magari proprio a Milano, in una ottima bottega, purtroppo non identificata.

Riusciamo a immaginarci Antonio Morandi, campigliese di Piaro, che risale l’Italia nel 1702 portando con sé, da Roma, alcuni frammenti della Croce di Nostro Signore? Reliquie. “Particulae”. Si dice ancora così, no? Tenere come una reliquia… E quelle erano reliquie speciali. A quel legno era stato inchiodato Gesù Cristo. Appeso a quelle travi incrociate aveva avuto l’umano, umanissimo dubbio che, per come si stavano mettendo le cose, suo Padre, Dio Padre, lo avesse abbandonato. “Eloì, Eloì, lemà sabactani…”. Ciò che era stato un tronco d’albero si era intriso del Suo sangue, aveva assorbito gli ultimi battiti del Suo cuore. Il Suo corpo si era accasciato, morto, scivolando per quanto i chiodi lo permettevano lungo quei due pali. A questo, forse, pensava quell’uomo dell’Alta Valle Cervo, mentre attraversava le terre del Papa, quelle del Granduca di Toscana, quelle della Repubblica di Genova e, infine, quelle del Ducato di Savoia, che non era ancora Regno di Sicilia e tanto meno di Sardegna. Pensava di avere in tasca, o nella bisaccia del cavallo, una traccia. La traccia del transito in questo mondo di chi, unico caso, era riuscito a tornare dall’altro. La traccia che era diventata segno, il “signum Crucis” che, ancora oggi, distingue il Cristianesimo e coloro che ne fanno parte. La messa cominciava (e comincia) con il segno della Croce. E Antonio Morandi, per conto del suo parroco (il vecchio don Giovanni Battista Furno), viaggiava con quei pezzettini di legno, “particulas ligni Santissimae Crucis Domini Nostri Iesu Christi”, con quei miracolosi pezzettini di legno, con quell’enorme privilegio sotto forma di pezzettini di legno. “Particulae”. 

La reliquia della Santa Croce di Campiglia Cervo riportata da Roma da Antonio Morandi conservata nella sua stauroteca (reliquiario per parti della Croce).
La reliquia della Santa Croce di Campiglia Cervo riportata da Roma da Antonio Morandi conservata nella sua stauroteca (reliquiario per parti della Croce).

In quei giorni di fine novembre del 1702, freddi ma mai com’erano a Piaro, il campigliese aveva quarantaquattro anni. Gliene restavano altri venti da vivere. Mentre camminava o cavalcava o mentre una carrozza lo conduceva da un posto di tappa all’altro si rallegrava: a casa, nella Bürsch, avrebbero avuto più di una scheggia della Vera Croce per Natale. Al cospetto della reliquia avrebbero pregato, cantato, pianto, vegliato. Stava compiendo una missione straordinaria, ne era ben consapevole, anche se non era la prima volta. E non sarebbe stata l’ultima. Già nella primavera del 1698 era stato a Roma per lo stesso motivo. Il cardinale Gaspare Carpineo gli aveva consegnato un esiguo lacerto del cuore e una frazione minima della di veste di San Filippo Neri. Già allora si era messo in viaggio per conto del priore di Campiglia Cervo. Era proprio il priore che voleva le reliquie, perché esaltavano la devozione, perché scaldavano le anime e i cuori. E aveva ragione. Nel 1711 Antonio Morandi avrebbe nuovamente percorso tutte quelle miglia, dal Cervo al Tevere e ritorno, ma non più per don Furno, che era mancato nel 1706. L’incarico gli sarebbe stato affidato dalla Confraternita dei SS. Pietro e Anna di Andorno Cacciorna. Tutti nella vallata sapevano che lui e suo fratello, Bernardino Morandi (1645-1725), avevano esperienza, e per certe attività l’esperienza, il “sapersi muovere” era tutto. I Morandi erano affidabili, seri. Bernardino Morandi era già su piazza nel 1679-1680 per la Parrocchia di Sant’Ambrogio di Sordevolo (procurò un prezioso reliquiario). Così per i “confratres” e le “consorores” andornesi aveva procurato una reliquia di Sant’Anna. In quell’autunno del 1702, mentre i boschi brillavano delle loro tinte più belle, il “carico” di Antonio Morandi era davvero eccezionale, anche nei colori. “Particulae”.

L’autentica della reliquia della Santa Croce consegnata ad Antonio Morandi a Roma il 15 novembre 1702.
L’autentica della reliquia della Santa Croce consegnata ad Antonio Morandi a Roma il 15 novembre 1702.

Conservate “in quadam capsula lignea panno serico viridi coloris cooperta, et argenteo funicolo circumdata”. La cassetta avvolta nella seta verde e legata da una cordicella d’argento, si presentava in forma quadrata, lunga e larga un palmo, cioè una spanna. Alta quattro dita. Sotto la seta si trovava una ulteriore legatura, di seta rossa, quella col sigillo di monsignor Gaddi, vescovo di Spoleto. Il tutto autentico, autenticato dal cardinale Alderano Cybo, passato a miglior vita due anni prima. Con tanto di richiami ad altri cardinali e a papa Urbano VIII di felice memorazione. Era stata la buona intercessione di frate Tommaso da Spoleto, francescano di stretta osservanza, che aveva permesso di esaudire le preci dei campigliesi. Il 14 marzo 1701 i suoi buoni uffici si erano concretizzati. Le “particulae” erano state staccate da una più cospicua “pars” della Santa Croce. Le schegge erano state poste con cura “intus quodam reliquiario argenteo in forma ovata cum duobus maniceis in capite et in pede cristallo ab utraque parte serico funicolo circumligato”. Questo reliquiario ovale d’argento, con due manici di cristallo, era contenuto nella scatoletta. Anche il reliquiario era legato e sigillato, con “cera rubra hispanica”, a sua volta. Non era saggio correre il rischio di distribuire reliquie false. Quasi due secoli di Riforma e di Controriforma avevano insegnato che si poteva giocare con fanti, ma si dovevano lasciar stare i santi. I fedeli erano e restavano tali solo se la Chiesa si dimostrava degna di fede. Affermare che quelle “particulae” erano state ricavate da un pezzo di legno che era in tutto e per tutto appartenuto alla Vera Croce non era cosa da nulla. Fin troppi, all’alba dell’Illuminismo che avrebbe illuminato il mondo, erano disposti, anzi lieti, di diffondere scetticismo nei confronti di pratiche religiose che il materialismo bollava agevolmente come piccole superstizioni. Piccole superstizioni nel contesto della più grande superstizione che era la religione stessa. La ragione non avrebbe ammesso né avrebbe necessitato di “particulae”, le idee non avrebbero voluto reliquie, la scienza avrebbe chiesto esperimenti replicabili e fatti provati, non credenze e rituali privi di fondamento logico. Senza contare che in passato quello delle reliquie era stato un mercato ampio e fiorente. Come quello delle indulgenze. Soldi nelle casse degli alti prelati in cambio di cosa? Piume d’angeli, prepuzi di Gesù Bambino circonciso, gocce di latte della Vergine? Fole, avrebbero detto i “philosophe”, i luciferi, i portatori della “Lumière”. “Ridiculae, non particulae”… 

Il dipinto dell’Allasina dell’oratorio di Sant’Antonio Abate di Piaro: i Morandi lo videro per tutta la loro vita.
Il dipinto dell’Allasina dell’oratorio di Sant’Antonio Abate di Piaro: i Morandi lo videro per tutta la loro vita.

Ma sarebbe troppo comodo e facile affrontare il tema in questi termini. Per chi crede, e nella Bürsch barocca chi non credeva?, che cosa vale di più? Il rigore dell’intelligenza o il conforto della Fede? E la domanda non è solo pertinente alle menti semplici che potevano avere i valìt di allora, specialmente quando la vita (e la morte) è tutto fuorchè intelligente e rigorosa, ma solo difficile e dolorosa. Il discorso delle reliquie è piuttosto complesso. La questione del mercimonio, per esempio, era di fatto ancora vessata, tant’è che Antonio Morandi aveva preso tra le sue mani un “dono”. La parola dono, scritta a chiare lettere, esplicitava che la cessione avveniva in quanto fatto non commerciale. Tuttavia… Il valèt era partito da Piaro alla volta dell’Urbe per accettare da monsignor de Zauli (la pergamena di consegna è firmata dal vescovo Domenico de Zaulis, “vicegerens” del cardinale Carpineo, e data in Roma il 15 novembre 1702) un regalo? Don Furno aveva mosso le sue leve e il meccanismo si era messo in moto da almeno un anno e mezzo coinvolgendo svariati ecclesiastici d’ogni ordine e grado… gratuitamente? Eppure, il documento tramanda questo, non altro. Il documento che racconta questa storia e, soprattutto, che attesta l’autenticità di quanto trasportato da Antonio Morandi si trova nell’Archivio Storico della Parrocchia di Campiglia Cervo. Giovedì scorso, a Forgnengo, nel contesto della seconda edizione del Bürsch Festival, si è parlato di reliquie in Alta Valle Cervo e dei fratelli Morandi, protagonisti della “fornitura” di arredi sacri e di “particulae” tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Religione e reliquia hanno stessa radice. Come relitto. La “religio” è il culto dei morti e le reliquie sono le testimonianze di chi fu. Si tratta di venerare “ciò che resta”, come fecero i primi cristiani nelle catacombe, sui sepolcri dei più antichi martiri. La presenza di una reliquia (le reliquie non sono tutte uguali e sono strutturate secondo una precisa gerarchia di valore) ricrea a tutti gli effetti quel cerimoniale cristiano primordiale e celebra coloro che si sono sacrificati per la propria appartenenza religiosa. Lo stesso discorso vale per i santi non martiri. San Filippo Neri, attraverso quel ritaglio di un suo abito e, più ancora, per il segmento del suo cuore, risultava vissuto in carne e ossa (esempio virtuoso di uomo che ha saputo elevarsi) e appariva presente “fisicamente”. La parte per il tutto, “particula per totum”. Antonio Morandi, che nelle carte romane è indicato come prete, ma prete non era, portò in vita la sua croce, come tutti. Ma anche un po’ dell’altra Croce. “Particulae”.

Una scena dello spettacolo di Teatrando proposto a Forgnengo giovedì scorso, 18 agosto, nell’ambito della seconda edizione del Bürsch Festival: si trattava di reliquie e non solo.
Una scena dello spettacolo di Teatrando proposto a Forgnengo giovedì scorso, 18 agosto, nell’ambito della seconda edizione del Bürsch Festival: si trattava di reliquie e non solo.