La Bürsch al Fréjus: i valìt di Cavour e di Sella

Il manifesto della mostra
Il manifesto della mostra

A conclusione della mostra, lunedì 20 settembre 2021, è apparso su "Eco di Biella" questo articolo di Danilo Craveia.

La xilografia ricavata da una fotografia di Alberto Luigi Vialardi inserita in prima pagina per «L’Illustrazione popolare» uscita l’8 gennaio 1871, con la didascalia Veduta esterna dei primitivi compressori. Si tratta dell’impianto di Bardonecchia.
La xilografia ricavata da una fotografia di Alberto Luigi Vialardi inserita in prima pagina per «L’Illustrazione popolare» uscita l’8 gennaio 1871, con la didascalia Veduta esterna dei primitivi compressori. Si tratta dell’impianto di Bardonecchia.

Venerdì scorso, 17 settembre 2021, ricorreva il centocinquantesimo anniversario dell’inaugurazione del traforo del Fréjus. Nella Bürsch, fin da luglio, si celebrano i valìt che fecero l’impresa, che lavorando duramente, tra il 1857 e il 1871, contribuirono in modo decisivo alla riuscita di un progetto di proporzioni globali. Le immagini che la TELT ha messo a disposizione dei curatori delle mostre ancora visibili in Valle Cervo restituiscono nitidamente le dimensioni internazionali di un cantiere che, all’epoca, non aveva ancora avuto uguali, se non a Suez. Ma l’opera che unisce Bardonecchia a Modane, l’Italia alla Francia, l’Atlantico al Mediterraneo, all’epoca non aveva precedenti per difficoltà e grandiosità. I disegnatori mandati dalle riviste di tutta Europa ritrassero un immenso cantiere in fervente attività, dove centinaia di operai e di tecnici, contemporaneamente dai due versanti, andavano via via trasformando l’idea in realtà. Tra quei lavoratori, tantissimi furono i biellesi e, tra loro, molti provenivano dall’Alta Valle Cervo. Celebrarne la memoria non è esercizio sciovinista, ma presa d’atto di un fenomeno storico rilevante per la nostra terra. Gli uomini della Bürsch entrarono nel tunnel e, scavandolo, ne uscirono diversi e nuovi. Uomini di un’Italia diversa e nuova che, nel 1870, aveva costruito il suo destino aprendo due brecce: una a Porta Pia, il 20 settembre, l’altra al Fréjus, il 25 dicembre. Era quella l’Italia, più che dei Savoia, dei Cavour, dei Lamarmora e dei Sella. Due su tre, biellesi. Il Regno d’Italia stava dimostrando di “fare sul serio”, imponendosi a livello politico-militare e tecnico-infrastrutturale. In quel processo di unificazione, di liberazione, di affermazione e di trasformazione, i biellesi e, in particolare, i valligiani di Campiglia Cervo, Rosazza e Piedicavallo, giocarono un ruolo determinante. Un momento epico nel quale era un privilegio vivere.

Il monumento a Quintino Sella al castello del Valentino a Torino in una xilografia di fine Ottocento.
Il monumento a Quintino Sella al castello del Valentino a Torino in una xilografia di fine Ottocento.

Lo sapeva Quintino Sella che, nel suo discorso pronunciato proprio il 17 settembre 1871 al termine del pranzo ufficiale, sosteneva che “allorchè si assiste ad un trionfo dell'intelligenza umana tanto splendido come quello che qui festeggiamo, allorchè si vede un'opera tanto importante per l'umanità, il primo movimento di ogni uomo di cuore è di alzare un grido di riconoscenza verso gli autori di un simile benefizio”. Autori che lo stesso Sella chiamò “operai del tunnel del Moncenisio” (quando Fréjus non si usava ancora per designare la montagna scavata). Operai. Parola alla quale lo statista biellese dava “una grandissima estensione”, cioè l’insieme di “tutti coloro che hanno promosso il tunnel, e vi hanno cooperato o lavorato sia col lavoro manuale, sua col lavoro intellettuale, sia come direttori, sia come amministratori, sia come legislatori, sia anche come pubblicisti, influendo sull’opinione pubblica, senza la quale si può far nulla oggidì”. I progettisti Sommeiller, il “biellese” d’adozione Grattoni e Grandis, Sella avvicinò dapprima al Napoleone del 5 Maggio, in quella “procellosa e trepida gioia d’un gran disegno”, e poi ai versi delle Odi di Orazio: “Exegi monumentum aere perennius/ regalique situ pyramidum altius,/ quod non imber edax, non Aquilo impotens/ possit diruere aut innumerabilis/ annorum series et fuga temporum”. Il traforo era un monumento più duraturo del bronzo e più alto della mole regale delle piramidi. La furia degli elementi non lo avrebbe scalfito nei tempi a venire. Ma quei versi, citati a proposito, erano anche, e soprattutto, dedicati ai nostri valligiani. Diversi e nuovi uscirono dalla galleria, dopo quasi tre lustri di fatica, i biellesi che acquisirono capacità e consapevolezza. I biellesi, e i valìt soprattutto, erano “già lì”, o quasi, quando il 31 agosto del 1857 esplose la prima mina, a Fourneaux, e il 14 novembre a Bardonecchia.

«La percée des Alpes – Pose de la dernière pierre de l’entrée du tunnel du Mont-Cenis, le 18 août 1871», così il periodico francese «L’Illustration. Journal Universel» del 9 settembre 1871.
«La percée des Alpes – Pose de la dernière pierre de l’entrée du tunnel du Mont-Cenis, le 18 août 1871», così il periodico francese «L’Illustration. Journal Universel» del 9 settembre 1871.

Da generazioni, dalle borgate dell’Alta Valle Cervo, i picapere partivano per le stagioni di lavoro sulle strade della Savoia, su quelle dei valichi, nelle fortificazioni delle Alpi piemontesi, ovunque fosse richiesta manodopera qualificata e non troppo esosa. Tra Sei e Settecento, gli scalpellini della Bürsch si erano abituati a quelle montagne non tanto diverse dalle nostre. Avevano vinto la diffidenza di altri valligiani come loro e si erano “integrati”. Con la primavera i biellesi arrivavano e con il freddo partivano. Lo stesso Napoleone di cui sopra ne aveva sperimentato l’abilità sul Moncenisio, sul Monginevro e altrove, dove la pietra doveva essere domata. Gente di Piedicavallo era già a Bardonecchia a coltivarne le cave dieci anni prima dell’inizio dei lavori del tunnel. E non fu difficile concentrare le forze di tanti valìt da una parte e dell’altra del Fréjus: quelli che si mossero appositamente dalle sponde del Cervo incontrarono sul posto altri compaesani che percorsero pochi chilometri, dalla stessa Val di Susa o dalla valle del Chisone o dalle vallate cuneesi, così come dalle terre dell’Arc, dalla Moriana, dalla Tarantasia. Costruire una strada è complicato, ma perforare una montagna lo è di più. Specie se il “foro” deve essere lungo dodici chilometri. Quella grande e drammatica esperienza (perché non furono mai rose e fiori) permise ai giovani di formarsi, di prendere confidenza con un “mondo” di roccia ben diverso da quello delle cave della Balma o di Quittengo, di addestrarsi all’uso di macchinari e di strumenti nuovi, di far proprio un mestiere altrettanto nuovo, da spendere in altre imprese, in Italia e nel mondo. Non è poca cosa. Anche perché, per tanti di quei lavoratori, il Fréjus non fu soltanto una galleria (quasi) orizzontale, ma anche un ascensore verticale in senso sociale. Il solito Quintino Sella pensava che in ogni operaio ci fosse un imprenditore in potenza, e per parecchi valìt attivi a Bardonecchia o a Modane aveva ragione da vendere. Entrare nel tunnel da umile picapere, uscirne con la mentalità da impresario. Certo, non a tutti andò bene, ma a tanti sì. I Boggio Bertinet di Oriomosso insegnano.

«Opening of the Mont Cenis tunnel: the first train», così annunciava l’apertura del traforo e il passaggio del primo treno la rivista inglese «The Illustrated London News» del 23 settembre 1871.
«Opening of the Mont Cenis tunnel: the first train», così annunciava l’apertura del traforo e il passaggio del primo treno la rivista inglese «The Illustrated London News» del 23 settembre 1871.

Anche perché lo scavo del Fréjus non fu opera di imprese appaltatrici, ma dello Stato. Lo Stato di Cavour e di Sella che, in un modo o nell’altro, si espose, ci mise la faccia e molto altro. Lo Stato che si giocava mezza reputazione di fronte all’Europa e al mondo intero. Dalla Crimea a San Martino e Solferino, da Castelfidardo a Porta Pia, il Risorgimento delle armi si era chiuso con una vittoria. Ma del Risorgimento della mazza e dello scalpello, del teodolite e dell’aria compressa il campo di battaglia era tra Bardonecchia e Modane, e bisognava venirne fuori con onore. E così fu, e senza eccessivo clamore, con la modestia dei veri grandi. “La meravigliosa grandezza di questo Traforo chiamò a sè l'attenzione di tutte le nazioni, e l'Italia, se fosse stata orgogliosa, avrebbe potuto farne una festa mondiale; ma ella si è limitata ad una festa nazionale. La storia, registrando a caratteri d'oro il portentoso coraggio, la perseveranza e l'attività della nostra giovine nazione, ci tributerà un giustissimo encomio per la modestia che abbiamo usata nel trionfo, e per la moderazione di cui abbiamo dato invidiabile esempio”. Queste le parole di Giuseppe Palmero nella sua Cronaca del Traforo delle Alpi Cozie e memorie di Torino e Bardonecchia nei giorni 17, 18, 19 settembre 1871 (stampato dagli Eredi Botta di Torino già nel 1871). Quella meraviglia è il risultato dello sforzo diretto dello Stato, senza inutili intermediazioni, lo Stato “impresa di successo”. Nessuno poteva mettere in dubbio le possibilità della “giovine nazione”. Anche chi dubitava dello Stato (monarchico) a prescindere. Cavour, dalla tomba, traeva soddisfazione dal Fréjus: lo Stato progressista, cioè votato al progresso, al libero mercato attuato anche con le migliori infrastrutture, al futuro scientifico e tecnologico, dissuadeva le rivoluzioni. Excelsior, più in alto, proclamarono Manzotti e Marenco nel loro “gran ballo” del 1881. Il Fréjus non portava più in alto, ma più lontano, e, più ancora, apriva una via, di luce. “I primi 200 metri sono illuminati da grandiosi finestroni che proiettano una luce bastante; ma inoltrandosi nelle viscere del monte, non si vede più che una fitta notte interrotta ad ogni chilometro da lampioni indicatori”, annotava ancora il professor Palmero che visse il passaggio inaugurale. Poi un punto luminoso, infine l’abbagliante trionfo del giorno. Tenebre dissolte. Le metafore si sprecano. E tutte gradite a Cavour e a Sella. Il traforo fu illuminante, in ogni senso, anche per valìt. Già prima che il primo treno passasse sotto il Fréjus i vallecervini avevano estratto dalla perforazione non solo detriti di scarto e materiali di risulta, ma anche la contezza di quanto l’abilità operativa e pratica non fosse solo un talento dato (o meno) dal buon Dio, ma anche e soprattutto il prodotto di una seria scolarizzazione tecnica. Non a caso, nel 1864, nel pieno esercizio del cantiere del tunnel, in quel di Campiglia Cervo nascevano le Scuole Tecniche. Eccoli, ancora una volta, gli uomini di Cavour e di Sella. Audaci, dinamici, tenaci. Intelligenti e proiettati nell’avvenire. Fautori di quel prodigio che tutte le riviste illustrate di allora pubblicavano da xilografie asciutte nei tratti, ma non meno celebrative. Il doppio cantiere attirava sul posto non solo “L’Illustrazione popolare”, ma anche “L’Illustration. Journal Universel”, “Le monde illustré”, “L’Illustration Européenne”, “The Illustrated London News”, “Illustrirte Zeitung” e tanti altri. Negli allestimenti di San Giovanni d’Andorno, di Campiglia Cervo (sede Società Operaia di Mutuo Soccorso) e Rosazza (Casa Museo) quelle rappresentazioni ci sono tutte e, anche se gli uomini appaiono per lo più piccolissimi accanto all’immensità dei monti, sono loro a dominare la natura che incombe, e non il contrario. 

Il cantiere di Bardonecchia con le case del villaggio operaio presso l’imbocco del tunnel in costruzione. Fotografia di Angelo Luigi Vialardi del 1868 (Biblioteca Civica di Biella).
Il cantiere di Bardonecchia con le case del villaggio operaio presso l’imbocco del tunnel in costruzione. Fotografia di Angelo Luigi Vialardi del 1868 (Biblioteca Civica di Biella).

Venerdì scorso, in due distinti appuntamenti, il primo a Bardonecchia e il secondo a Santena, presso la Fondazione Cavour, i valìt del Fréjus sono stati rievocati e inquadrati in quella cornice da epopea. Loro, nel manzoniano coro dei semplici alle spalle dei potenti, vivi o già morti, che tracciarono la via dei loro destini. Nel giugno del 1861 un ancora giovane e infervorato Quintino Sella visitava il cantiere e il villaggio dove tanti suoi compatrioti biellesi davano il proprio contributo alla causa nazionale, come altri nelle patrie battaglie. L’appunto autografo, rimasto inedito fino a poche settimane or sono (pubblicato da Anna Bosazza e Elisabetta Botto Poala sulla “Rivista Biellese” dopo la scoperta nella “Miscellanea” di Quintino Sella conservata presso la Biblioteca Civica di Biella), fu vergato con gli occhi e il cuore ancora colmi di commosso stupore. “Sia dunque lode agli ingegneri Grattoni, Grandis e Sommeiller che dotarono la scienza e le arti di sì bel brevetto, di tutte ed in specie l’arte mineraria si ripromettono vantaggi altissimi. Lode ad essi che resero possibile un’opera importantissima agli interessi economici e pubblici dell’Italia per cui torna all’antico splendore la fama degli italiani ingegneri. Sia lode al Cav. Des Ambrois sotto il cui ministero si intrapresero gli studii del traforo delle Alpi, e le ferrovie del Piemonte, e che con opportunissima antiveggenza inviando gran copia di giovani distinti a completare i loro studii all’estero seppe dotare il paese di ingegneri capaci di costruire ed esercitare le ferrovie, capaci di risolvere i primari ed ardui problemi che l’arte abbia presentati, sia che si tratti di salire le inaudite pendenze degli Appennini, o di varcare le più alte montagne. Né sia lecito scordarmi i nomi di Paleocapa e di quel Grande che piange il mondo civile, al cui coraggio si debbe l’impresa ed a cui niuna altra cosa dopo l’Italia si è come quella del traforo delle Alpi”. Nessuna altra impresa, dopo l’Unità d’Italia, è tanto rilevante come il traforo delle Alpi. E non era il caso di indicare quale, perché all’epoca esisteva solo quello.

Xilografia d’epoca che illustra l’area di Modane-Fourneaux.
Xilografia d’epoca che illustra l’area di Modane-Fourneaux.

La volontà di metterla in atto fu di Cavour, e Sella ne ereditò la visione. La percezione dell’eccezionalità dell’avvenimento era già tale in quel tempo e vale la pena di tramandarla, almeno in questi giorni di ricorrenza. Giorni che sono stati festeggiati anche sabato, al Circolo di Rosazza, richiamando (con la voce del sempre convincente Gigi Mosca) i toni del discorso del Sella. E con quelli, l’atmosfera di quel 17 settembre in cui, anche gli uomini dell’Alta Valle Cervo festeggiarono. Ancora il professor Palmero all’arrivo a Bardonecchia: “gli operai del Traforo, gli abitanti di quei dintorni fanno ala acclamando il glorioso convoglio. Una compagnia di carabinieri in gran parata rende gli onori militari; la musica della guardia nazionale di Torino intuona la celebre barcarola della Muta di Portici, ed i due cannoni trasportati sul Fréjus seguitano a tuonare”. Quegli operai avevano le loro povere cose pronte per tornare a casa. Quelli diretti nella Bürsch avevano messo nella valigia anche un’altra gemma estratta dalle viscere della montagna: la opportunità/necessità di unire le forze in un sodalizio che ha cambiato la loro vita e quella della gente della vallata. A Bardonecchia era nata la Società Operaia di Mutuo Soccorso della Valle d’Andorno ed è importante sottolineare quei natali extra moenia, ma così profondamente valligiani. Solo una grande spinta ideale poteva dar vita a una simile esperienza, non così scontata per gli spiriti indipendenti e fieri dei valìt. Anche in questo, forse soprattutto in questo, si ritrovano, ancora una volta, gli uomini di Cavour e quelli di Sella. La grande Patria, per essere tale, ha avuto bisogno di coralità e di condivisione di intenti. La piccola patria che è la Bürsch non poteva che agire allo stesso modo. L’Italia è nata anche sotto il Fréjus. Un po’ anche la Bürsch.